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Confronto padre-figlio nel Wajib – Invito al Matrimonio di Annemarie Jacir

Ambientato a Nazareth e canditato all’Oscar Miglior Film Straniero per la Palestina, il 19 aprile esce al cinema Wajib – Invito al Matrimonio, il film di Annemarie Jacir in cui il conflitto generazionale tra la saggezza di un padre e l’irruenza di un figlio viene amplificato dalla complessità e criticità del contesto socio politico in cui sono immersi i due protagonisti. Gli attori Mohammad Bakri e Saleh Bakri sono padre e figlio anche nella vita, così come i loro doppiatori italiani, Andrea Mete e Marco Mete.

Abu Shadi (Mohammed Bakri) ha 65 anni e vive a Nazareth, in Palestina. Di professione insegnante, molto stimato, Abu Shadi ha cresciuto da solo i due figli dopo l’abbandono della moglie e la sua fuga in America con un altro uomo, e ora si appresta a vivere quello che è forse il giorno più bello della sua vita: il matrimonio della figlia Amal. Per l’occasione e per aiutarlo nei preparativi, è tornato nella città natale anche Shadi (Saleh Bakri), l’altro figlio che ormai da tempo vive in Italia, dove lavora come architetto. Pur essendo ormai avvezzo agli usi occidentali e molto critico verso quanto accade nella regione, Shadi non si è sottratto al rispetto della locale consuetudine palestinese che prevede il “Wajib”, il “dovere” da parte dei familiari, di consegnare personalmente le partecipazioni di nozze, come forma di rispetto verso gli invitati.

Di casa in casa, con visite a familiari, amici o anche semplicemente vicini, Shadi e Abu Shadi si apprestano a trascorrere insieme un’intensa giornata on the road dedicata a incontri e consegne così come vuole la tradizione. Le porte di cristiani, mulsulmani e anche atei si aprono al loro arrivo. Ma se al cospetto degli invitati padre e figlio riescono a calarsi nel ruolo che tutti da loro si aspettano, nei momenti in cui sono soli, la diversa visione della vita e dei valori che ormai ampiamente li separa affiora man mano in superficie costringendoli a un inevitabile confronto.

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Wajib indaga in modo toccante e realistico la linea sottile che intercorre tra amore e dovere, modernità e tradizione, sovversione e adeguamento. Un confronto che va oltre i torti e le ragioni ma evidenzia solo fragili e diverse vite. Qui sotto ecco un estratto dell’intervista rilasciata dalla regista Annemarie Jacir.

Da dove nasce il titolo Wajib?

In Palestina, c’è una tradizione tutt’oggi molto importante. Quando qualcuno si sposa, gli uomini della famiglia, solitamente il padre e i figli, devono consegnare personalmente gli inviti al matrimonio a ciascun invitato di persona. Non vi è alcuna spedizione o consegna da parte di estranei. Se gli inviti non vengono consegnati personalmente, è considerata una mancanza di rispetto. Non conosco nessun altro luogo dove si condivida questa tradizione quanto la Palestina del Nord, dove appunto è ambientato Wajib. Wajib significa essenzialmente “dovere sociale”. Quando mia cognata si è sposata, è stato dovere di mio marito consegnare gli inviti con suo padre. Decisi di seguirli silenziosamente per i cinque giorni impiegati per attraversare la città e i villaggi circostanti. Come osservatore silenzioso a volte era divertente e altre volte doloroso. Gli aspetti di quella speciale relazione tra padre e figlio, le tensioni dell’amore che li lega, sono venute fuori a piccole dosi. Ho iniziato a lavorare così all’idea di questo film, partendo da questa fragile relazione.

Questo Wajib è seguito altrove nel mondo arabo?

Fondamentalmente, Wajib esiste in tutto il mondo – per dirla in modo più semplice, qualifica il tuo “dovere sociale, ciò che devi fare nella società e nella tua famiglia. È il “Wajib” di Shadi (Saleh Bakri), aiutare il padre a distribuire gli inviti. Mentre il “Wajib” di Abu Shadi (Mohammad Bakri) è invitare alcune persone al matrimonio, anche se sa che non potranno venire o non vorrebbe venissero. Il “Wajib” fornisce un contesto alla mia storia: mi permette di esplorare una relazione padre-figlio e anche il funzionamento di una comunità, come ognuno dei suoi membri reagisce sia in pubblico, sia in privato. Il “Wajib” assume una forma diversa a seconda della società. A volte può essere soffocante e persino estenuante. Ma è anche ciò che permette alle tradizioni di sopravvivere. La distribuzione degli inviti di nozze in Palestina, una terra occupata da 70 anni, è cruciale. Immagino sia come reclamare un’identità e le contraddizioni che ne derivano. Non c’è posto più legato a questa tradizione del Nord della Palestina.

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Come mai ha deciso di ambientare la storia a Nazareth?

Per molte ragioni che rendono la città quasi il terzo personaggio del film. Nazareth è la più grande città della Palestina “storica”, ora Stato d’Israele, i cui abitanti sono palestinesi cristiani (40%) e musulmani (60%). È la piccola minoranza palestinese che ha preferito rimanere piuttosto che vivere una vita da rifugiati, anche se sono stati costretti ad avere documenti d’identità israeliani. Con una popolazione di 74.000 abitanti in una superficie ridotta, le condizioni di vita sono tese, con una forte competizione per le abitazioni, una grande mescolanza tra le persone. Sotto molti aspetti, Nazareth è diventata oggi un ghetto. I palestinesi che vivono in Israele sono chiamati “i palestinesi invisibili”: sono cittadini di seconda classe, privati di una parte dei loro diritti. Ma i loro dati demografici sono dinamici e le tensioni con lo Stato sono in aumento: costituiscono ciò che Israele chiama una “minaccia demografica”. Questi sono uomini e donne che si battono per i loro diritti e per delle risorse limitate. Il popolo di Nazareth possiede una grande umanità, tanto umorismo e voglia di vivere. Ma per me, Nazareth, è una città di sopravvissuti…

Padre e figlio trascorrono buona parte del film in auto…

Questa vecchia Volvo, piena di ricordi, era la loro auto quando la famiglia era unita ed è tutto ciò che rimane loro di quel periodo. Mi piaceva l’idea di rinchiuderli in questa macchina, dove sarebbero stati costretti a parlarsi e confrontarsi l’un l’altro. Wajib è il mio film con più dialoghi, anche se ciò che mi interessava di più era tutto ciò che il padre e il figlio non si dicevano o non si sono mai detti. Questo dispositivo mi ha anche permesso di mostrarli così come sono quando sono soli in macchina, e come sono invece quando vanno di casa in casa, dove sono obbligati a recitare un ruolo. Mi è anche piaciuta l’idea che il film si svolgesse in un solo giorno.

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Il percorso dei due protagonisti si potrebbe quasi tracciare su una mappa …

È importante capire la topografia di Nazareth. La città si trova nella valle. Ma nel 1957, un piccolo insediamento ebraico si è stabilito sulla collina a strapiombo, che ormai tutti chiamano “Nazareth superiore”. Abu Shadi e suo figlio percorrono la città e salgono verso l’insediamento dove vive Ronnie Aviv, oggetto di discussione tra padre e figlio. Shadi non se ne rende conto immediatamente: Nazareth si è sviluppata così tanto durante la sua assenza, che il confine tra la città e l’insediamento è meno evidente di prima.

Secondo Lei, Shadi e Abu Shadi finiranno per riconciliarsi?

Wajib è la storia di due uomini distrutti che provano entrambi dolore e rabbia, anche se non lo mostrano allo stesso modo. Alla fine, sono due uomini che hanno perso la famiglia e che tentano di ritrovarsi. Due uomini che hanno preso decisioni contrastanti e si chiedono reciprocamente un po’ di rispetto. Alla fine del film, non mi interessa sapere chi ha ragione e chi ha torto: cerco solo di essere onesta rispetto al loro dolore e alla loro vita quotidiana.

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Senti il dovere di mostrare la quotidianità del popolo palestinese?

Non è un dovere, no. Il cinema è un’arte di cui mi sono innamorata, È anche una tecnica e cerco sempre di migliorarmi. In quanto palestinese, sono ovviamente attratta dalle storie delle persone che conosco. Ma non solamente da quelle. Dobbiamo rimanere liberi, e senza limiti, nella pratica di quest’arte.

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