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Fabrice Luchini riparte da zero nel Parlami Di Te di Hervé Mimran

E se un manager all’apice della carriera dovesse da un giorno all’altro ricominciare da zero? Questo e molto altro è Parlami Di Te (titolo originale Un Homme Pressé), la commedia – tratta dal romanzo J’étais un homme pressé di  Christian Streiff – scritta e diretta da Hervé Mimran con protagonista Fabrice Luchini. Il film, che ha vinto il Premio del Pubblico all’ultima edizione del France Odeon, sarà in sala dal 21 febbraio.

Alain (Fabrice Luchini) è un rispettato uomo d’affari e un brillante oratore, sempre in corsa contro il tempo. Nella vita, non concede alcuno spazio alle distrazioni e alla famiglia. Un giorno, viene colpito da un ictus che interrompe la sua corsa e gli lascia come conseguenza una grave difficoltà nell’espressione verbale e una perdita della memoria. La sua rieducazione è affidata a Jeanne (Leïla Bekhti), giovane logopedista. Con grande impegno e pazienza, Jeanne e Alain impareranno a conoscersi e alla fine ciascuno, a modo suo, tenterà di ricostruire se stesso e di concedersi il tempo di vivere.

Lasciamo ora spazio ad un estratto dell’intervista rilasciata da Hervé Mimran.

Cosa voleva esprimere con Parlami Di Te?

In questo film volevo soprattutto parlare della fragilità della vita, dell’essere umano, che sia un individuo potente o che sia un poveraccio. Essere un giorno in vetta e il giorno dopo senza più niente. È un tema che mi ha sempre affascinato. E che produce buone storie per di più. Che si abbia poco o tanto, si ha sempre paura di perdere quello che si ha.

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Ci si colloca ai margini della finzione, quando si tratta delle conseguenze molto reali nei casi di accidente cerebrovascolare?

Non faccio un film per rendere conto della realtà. Amo il naturalismo di alcuni cineasti, ma non corrisponde al mio universo. Quando Christian Strieff mi ha spiegato che straparlava convinto di essere intellegibile, ho capito di avere in mano la chiave di questa storia. Non avevo bisogno di andare a seguire il lavoro di un gruppo di logopedisti per sei mesi! Però, ho svolto molte ricerche, ho incontrato IL neurologo specializzato in ictus e i logopedisti che si erano occupati della rieducazione di Christian. Anche se si decide di non restare incollati alla realtà, non si possono neanche dire delle sciocchezze. Con Leïla, siamo persino andati a parlare con dei pazienti in stadi diversi di riabilitazione. Ogni caso aveva le sue particolarità. Ho parlato con un uomo di 60 anni, brillante, con un eloquio consequenziale fino a quando non gli è stato chiesto di elencare in due minuti tutti gli sport che cominciano con la lettera «S»: come se gli avessero domandato di recitare Proust a memoria. Un’altra paziente, di 80 anni, si esprimeva come Alain nel film: in modo incomprensibile, ma animata da un’intenzione e una lucidità assolute.

Si è preoccupato di dare al film una dimensione più drammatica?

Mai. La base di ogni commedia è il dramma. È il modo in cui ho affrontato i miei precedenti lavori. Le reazioni del pubblico sono state a volte sorprendenti: alcuni sentivano gravità nei momenti in cui altri ridevano di gusto. È un aspetto che fa parte della mia cultura, del mio amore per un certo tipo di cinema che, con l’espediente dell’umorismo, parla con pudore di temi più cupi. La commedia non è un genere, è un linguaggio. Affondare il chiodo del dramma non fa per me. Spesso quando si parla di commedia, si pensa ai film comici, ma in realtà si tratta di un genere molto più vasto. Quando ero adolescente, con i miei amici ridevamo guardando i film di Pierre Richard e Louis de Funès, ma ero un po’ l’unico a sghignazzare guardando Mel Brooks e il suo senso dell’assurdo e dello sfasamento.

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E se parlassimo di commedia malinconica?

È un genere che non esiste! (ride). Ma perché no… È vero che il film si presta a un certo grado di introspezione, nel misurare le cose che abbiamo perduto, ma la sua traiettoria è proiettata verso l’avanti, non ristagna nella tristezza. Una «commedia sulla ricostruzione» suona meglio!

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