foto di Srdja Mirkovic

I tormenti di Pasolini in L’Indecenza e la Forma

foto di Srdja Mirkovic

Ancora un viaggio nei gironi pasoliniani con L’Indecenza e la Forma (Pasolini nella Stanza della Tortura), nuovo testo scritto da Giuseppe Manfridi, per la regia di Marco Carniti, con protagonista Francesca Benedetti, in prima nazionale lunedì 13 febbraio (ore 21) al Teatro Argentina di Roma.

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Un melologo dove la scrittura si fa musica e la musica si trasforma in grido di rabbia. Un fiume inarrestabile di parole e di immagini a comporre un affresco pasoliniano feroce e disperato sul rapporto distorto tra madre-padre-figlio. Il testo si presenta con una struttura poetica dal ritmo densissimo che traccia un viaggio vorticoso nelle zone più infernali della vita di Pasolini, e che senza pudore entra nelle carni di quello che è stato il dato centrale della sua biografia: il rapporto con la madre e con il padre. Un triangolo familiare che dal momento stesso della creazione, il parto materno, delinea un destino di ostacoli emotivi capaci di scardinare la psicologia frantumandone la personalità e generando vuoto, solitudine e disperazione.

L’Indecenza e la Forma è dunque un oratorio dissacrante che esplora i rapporti genitoriali: un’elegia spietata sul potere all’interno della famiglia che si trasforma in un incubo feroce in cui Pasolini è vittima. Non un poema, come potrebbe apparire, ma un atto teatrale su carta per infiammarsi nelle carni dell’interprete e nell’incandescenza della scena. «Si sa: nella vita e nell’opera di Pasolini l’indecenza e la forma coabitano, confliggono e si mischiano per virtù alchemica in perpetuo, condannando il loro Prospero a quella stanza della tortura da sempre assegnata ai grandi eretici di ogni epoca – riflette l’autore Giuseppe Manfridiin più, è come se a Pasolini fosse stato imposto di tirare su da sé le mura della sua cella, e di mettere punto con le proprie stessi mani gli strumenti destinati a seviziarlo. E lui lo ha fatto con uno scrupolo che a molti è parso masochistico, e non piuttosto l’atto sacro che fu. Nel profluvio dei versi che compongono il copione, nei lacci delle rime e delle assonanze, nel rap dissennato che traversa facce, gole, miti e nervature, l’osceno ambisce a purificarsi, mostrandosi ansioso di una spietatezza che lo giustifichi, fomentando dialoghi estremi, fatali. Parla il poeta bambino e parla il poeta adulto, parla il padre delittuoso e la madre onnivora, parla il fratello caro agli Dei e parla Saturno divoratore dei propri figli. Parla la plebe e parlano gli amanti. E il loro parlare si traduce in lotta, la lotta si traduce in dramma, e il dramma tende alla sua catarsi. È il compimento di un’esistenza che, per paradosso, ha saputo domare il proprio fato accettando un’assoluta e definitiva sottomissione ad esso».

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Un testo polifonico a più voci, tutte affidate a Francesca Benedetti, per un viaggio dal reale autobiografico a quel “romanzo mai scritto” in cui Pasolini rivive i suoi rapporti con la madre e il padre in una sorta di incubo feroce, un “caos” involontario che lo porta all’autodistruzione. «Una drammaturgia ipertrofica scomoda e respingente – racconta il regista Marco Carniti Un Pasolini capovolto che esce allo scoperto mostrando la parte più fragile di se stesso. Un vero e proprio sacrificio umano che si svolge davanti agli occhi del mondo fuori da ogni tipo di giudizio o giustificazione. Ho cercato di rappresentare ciò che è stato creato per essere solo ascoltato. Unendo sacralità e perversione in un laccio inestricabile. Un cordone ombelicale che strangola senza pietà un figlio-vittima lasciando senza respiro sia l’attore che lo spettatore. Ho dato corpo e azione teatrale a un personaggio inesistente nel testo originale che rappresenta in senso fisico e metafisico il rapporto vittima-carnefice che si instaura tra madre-figlio e padre-figlio. Un testo che vuole superare tutti i limiti della decenza verbale e fisica scompigliando le carte del nostro destino e generando il caos che ci coinvolge tutti».

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