(Foto di Claudio Iannone)

Il Mangiatore di Pietre, Luigi Lo Cascio e la gelida umanità di Nicola Bellucci

(Foto di Claudio Iannone)

Giovedì 18 luglio arriva al cinema Il Mangiatore di Pietre, l’incisivo e profondo noir diretto da Nicola Bellucci tratto dall’omonimo romanzo best-seller di Davide Longo. Girato in Piemonte (Val Varaita, Cuneo) e in Ticino (Val Bavona), Il Mangiatore di Pietre è una storia cupa ma piena di speranza che ha come protagonista uno straordinario Luigi Lo Cascio. Al suo fianco un grande cast composta da: Vincenzo Crea, Ursina Lardi, Bruno Todeschini, Leonardo Nigro, Lidiya Liberman, Elena Radonicich, Antonio Zavatteri, Beppe Servillo e Paolo Graziosi.

Il film

Piemonte, una valle ai confini con la Francia. In una notte d’autunno affiora dalle acque di un torrente il cadavere di un uomo fulminato da due colpi di fucile. A ritrovarlo è Cesare (Luigi Lo Cascio), detto il Francese, passeur che da anni ha lasciato il mestiere di contrabbandiere e vive con la sua lupa chiuso nella solitudine di una baita. Il maresciallo Boerio (Leonardo Nigro) è incaricato di investigare la morte del giovane Fausto, ma il suo legame con la mafia locale verrà presto messo in discussione dalla commissaria Sonia Di Meo (Ursina Lardi). I diversi destini si intrecciano quando Sergio, un giovane del paese (Vincenzo Crea), scopre un gruppo di rifugiati in una capanna abbandonata.

Il confine e l’ambiguità dell’uomo

“Nella storia del “mangiatore” si rivelano i lati opachi delle cose, la duplicità dell’agire umano che mi affascina e spaventa”.

Nicola Bellucci – 

Al centro de Il Mangiatore di Pietre c’è il tema del confine, territorio di mezzo, indeterminato e ambiguo: linea reale, convenzionale o culturale, che separa, sempre, ciò che è altro da sé è il luogo simbolico per eccellenza di questo film. Il confine da proteggere e da oltrepassare, diventa la linea demarcatrice delle scelte morali, dei rapporti interpersonali e del destino dei suoi protagonisti, moltiplicando gli interrogativi di partenza all’infinito. Lungo il filo conduttore di questa dialettica fra interno ed esterno si snoda la trama della pellicola: un “noir” duro, amaro, da nodo alla gola. Con un duplice punto di vista: quello del passeur Cesare, trafficante d’uomini, e quello del giovane Sergio, ragazzo che si sta facendo uomo.

(Foto di Claudio Iannone)

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Una comunità disgregata, senza padri, senza figli

Sullo sfondo, come un Coro greco, la desolazione di un mondo alpino ormai in abbandono, con i suoi abitanti e il loro modo di vivere sobrio e solitario all’interno di una comunità disgregata dalla modernità e, quasi un punto interrogativo, un gruppo di clandestini in attesa di conoscere la propria sorte. Il noir è un pretesto per portare alla luce rapporti conflittuali e durissimi tra padri senza figli e figli senza padri, in cui valori e affetti si tramandano in modo più trasversale, fra amici, ma anche nel rapporto “adottivo”, per così dire, tra padrino e figlioccio. Il film racconta della fine di un mondo, di un’epoca, di uno stile di vita, di un uomo, Cesare, che sembra aver rinunciato a vivere. Intorno a lui tutto sembra soffocare, il dolore stesso non ha voce, il sangue non ha odore, è una macchia rosso scura sul pavimento.

Il gelo dei sentimenti

Anche l’amore non dà calore, non scioglie il gelo. Tutto sembra essere già stato detto, o forse non serve più parlare dove l’Uomo sembra condannato alla solitudine e al silenzio. L’omicidio è il detonatore che sembra rimettere in gioco le cose e i sentimenti: l’ultimo viaggio del passatore, estremo tentativo di fare i conti col proprio passato, si trasforma in azione e in recupero (“una volta sola, e poi mai più”) dell’antico ruolo di “attraversatore di spazi”. Lungo la cresta che segna il confine, Cesare sceglie di compiere il passo più difficile della sua vita. Decidendo di agire, egli costringe se stesso a varcare – consapevole e solo apparentemente disincantato – una soglia fatale. La sua sarà una sfida classica, incalzante, degna dell’epica di un film western, che lascerà un morto sulla candida neve e qualcun altro, vivo, ad aspettare la morte.

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Nicola Bellucci

Lasciamo ora spazio all’intervista rilasciata dal regista, Nicola Bellucci.

Nicola Bellucci, lei è un documentarista, ma ha scelto di passare alla finzione per questo film. Come è successo?

Ho letto il romanzo di Davide Longo nel 2012 in Cecenia durante le riprese di “Grozny Blues”. Mi confrontavo ogni giorno con persone che subivano gravi minacce da parte del regime, che mettevano in gioco la propria vita pur di resistere alla barbarie dilagante nel Paese. Ho assistito personalmente al rifiuto dell’asilo a persone minacciate di morte da parte di Paesi europei che si professano civili. Ero pieno di rabbia e senso di impotenza. Forse per questo mi ha colpito la storia di Cesare, in qualche modo mi sono identificato con lui. C’era qualcosa di molto personale per me in quella storia , mi affascinava la dimensione etica del personaggio, quel suo lottare contorto al confine tra il bene e il male.

Quindi la finzione ti ha permesso di sviluppare meglio la tensione etica del protagonista?

Esattamente. Quando abbiamo iniziato a lavorare a Il Mangiatore di Pietre nel 2014, il discorso pubblico sui migranti era molto diverso da oggi. Tra Italia e Francia, i valichi alpini non erano più il luogo di passaggio di clandestini. Il romanzo di Longo è ambientato negli anni 80, descrive un mondo in via di sparizione, quello dei passeur, che paradossalmente oggi è tornato attuale, tanto che si potrebbe parlare, rispetto al film, di verosimiglianza retroattiva. Non volevo fare un film “sui migranti”: piuttosto un film su come un uomo affronta il suo destino di estinzione, un film sull’amore, sull’amicizia e sulla morte. Il che oggi ha ovviamente anche a che fare con i migranti.

(Foto di Claudio Iannone)

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Il confine come luogo o piuttosto come non-luogo?

Attraversiamo ogni giorno confini, sia fisicamente che metaforicamente. Come società, ne creiamo sempre di nuovi. Ad esempio, il senso della perdita di identità crea confini. Ci sentiamo impotenti e sempre più incapaci di comprendere la realtà che ci circonda. Cesare cerca tenacemente di superare la propria codardia, le proprie paure. È questo forse di cui abbiamo oggi più bisogno.

Non c’è speranza per Cesare?

C’è forse speranza per la nuova generazione, per persone come Sergio, che hanno il coraggio di ribellarsi, che hanno desiderio di libertà, di giustizia. Cesare sa che è troppo tardi per lui. Il Mangiatore di Pietre è anche la storia di un uomo che alla fine si arrende al proprio destino, che valica quel confine per l’ultima volta, cercando di trasmettere la fiaccola della speranza alla generazione del giovane Sergio.

C’è un po’ di Cesare in Nicola Bellucci?

Non lo posso negare. Sono un emigrato anch’io. È in atto, un po’ ovunque, un processo di involuzione che prevede sempre più assimilazione e integrazione a modelli identitari che negano le diversità. Mi piace molto una parola coniata da una mia amica scrittrice: stranieritudine. È li ormai che io stesso vivo, senza identità fissa, senza fissa dimora. Sono da 20 anni in Svizzera. Più che essere integrato, vorrei poter votare. Vorrei, come dice Hannah Arendt, “la libertà di essere libero”, di partecipare alla vita pubblica, indipendentemente dalla mia assimilazione.

(Foto di Claudio Iannone)

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Che tipo di linguaggio estetico hai voluto sviluppare?

Per me era importante lavorare tra le pietre, nell’umidità, nelle altezze e nelle strettoie della valle, trovarvi sottili sfumature di tono e di umori. Abbiamo lavorato molto con la luce per veicolare le emozioni. I colori degli esterni prediligono i toni freddi, taglienti come quelli dei ghiacciai, gli interni tendono al rosso. Ho cercato di ricreare un ambiente quasi astratto, a volte teatrale, anche negli esterni. Il ritmo è lento, come i passi sui sentieri di montagna, che richiedono pazienza e costanza. Tutto è ridotto al minimo, all’economia dei mezzi espressivi e dei dialoghi.

Lontano dal neo-neorealismo?

Direi di si. La messa in scena è classica, se vuoi simile all’atmosfera di certi film di Clint Eastwood. Siamo chiaramente nelle valli impenetrabili del Piemonte, ma allo stesso tempo in un set cinematografico costruito, dove tutto è predeterminato fin dall’inizio. I luoghi e i paesaggi sono quelli dell’anima, riflessi di stati d’animo di Cesare e di Sergio, quasi stazioni di un calvario. C’è come uno spaesamento spazio temporale che devono attraversare. Lo stesso si può dire per la trama, molto ellittica e minimale, dove ho lavorato molto per sottrazione. Come giustamente afferma Paul Schrader, “i salti sintattici hanno l’effetto di costringere lettore e spettatore a concentrarsi sulla scrittura o sulle immagini, sui comportamenti e le scelte morali che si susseguono nella vicenda, a scapito della centralità di un intreccio tutto sommato abbastanza lineare”. Il noir è sicuramente una questione di stile.

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Il Mangiatore di Pietre è un western di montagna?

Credo che anche nel romanzo, oltre a Fenoglio e Pavese, ci siano molte suggestioni da certa letteratura americana. Diciamo che il film è un ibrido di generi, un intrigo noir in un apparato western. Un noir scomposto nelle sue parti canoniche, che non necessariamente combaciano.

L’adattamento cinematografico di un libro: gioia o dolore?

Adattare, si sa, è sempre tradire. Ho tolto molte cose che erano nel libro, soprattutto i flashback che ricostruivano il passato dei personaggi principali. Ho dato più spazio a Sergio, il ragazzo, ho cambiato anche il finale. Nella fase conclusiva di lavorazione della sceneggiatura ho coinvolto Davide Longo, ed è stata una proficua collaborazione. Spero che i lettori del libro non rimarranno delusi.

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