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In Nome di Mia Figlia, la ricerca di giustizia di Daniel Auteuil

Tratto da una storia vera, è da domani al cinema In Nome di Mia Figlia, il film diretto da Vincent Garenq con protagonista un grande Daniel Auteuil. Nel cast anche Sebastian Koch e Marie-Josèe Croze.

Nel 1982, Kalinka, la figlia quattordicenne di André Bamberski (Daniel Auteuil), muore mentre è in vacanza in Germania con sua madre e con il patrigno. André è convinto che non si sia trattato di un incidente e inizia a indagare. Gli esiti di un’autopsia sommaria sembrano confermare i suoi sospetti e lo spingono ad accusare di omicidio il patrigno di Kalinka, il dottor Dieter Krombach (Sebastian Koch). Non riuscendo però a farlo incriminare in Germania, André cerca di far aprire un procedimento giudiziario in Francia e dedicherà il resto della sua vita nella speranza di ottenere giustizia per sua figlia.

Vi presentiamo ora di seguito un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Vincent Garenq.

Perché le è venuta voglia di fare un film su André Bamberski?

Avevo seguito la sua storia e avevo visto il suo libro Pour que Justice te Soit Rendue, ma mi sono trattenuto dal leggerlo subito, perché mi dicevo che dopo la pellicola Presumé Coupable non era ragionevole rifare un film ambientato in un contesto giudiziario. Alla fine sono crollato. Ho comprato il libro e l’emozione mi ha letteralmente sommerso, l’ho letto in una notte.

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Cosa l’ha sconvolta a tal punto del libro?

Sono rimasto molto colpito dalla perseveranza del protagonista, dalla sua ostinazione. Per trent’anni, non ha mai mollato, si è battuto come un forsennato affinché fosse fatta verità e fosse resa giustizia a sua figlia. Col passare del tempo è diventato uno specialista di diritto, spesso ne sapeva più degli avvocati. Nessun ostacolo ha mai potuto fermarlo. E finalmente è riuscito a vincere l’immobilismo della giustizia francese e tedesca! E’ una vera e propria manna per uno sceneggiatore. C’è una dimensione eroica in tutto questo, una qualità molto cinematografica, ma è anche una storia di paternità che mi tocca profondamente, ho due figli che sono la cosa più bella che mi sia mai capitata nella vita. La paternità è un soggetto che mi ossessiona, è il centro di tutti i miei film.

L’altro elemento in comune degli «eroi» dei suoi film è che sono tutti realmente esistiti. Come mai?

Perché la sincerità e la purezza che emanano le loro storie mi tocca, mi attira in maniera irresistibile. M’ispirano. L’ispirazione per i miei film non la trovo mai in me stesso, l’attingo dall’esterno, dalla vita degli altri, quando essa risveglia in me una risonanza particolare. Poi, raccontando la loro storia, attraverso il processo della scrittura, m’identifico con loro e questo finisce per donare una musica piuttosto personale al film. Ulteriormente, credo che la realtà sia un terreno capace di offrire grande ispirazione, oltre che molto fertile per scrivere. Si dice spesso che sorpassi la fantasia, ed è proprio vero nella maggior parte dei casi. Essa genera più freschezza e sincerità nei film. Per me, una buona storia è una storia che ha un ancoraggio nella realtà, nella vita reale. Inoltre, non mi piacciono i film degli «sceneggiatori», in essi scopro tutti i trucchi o, peggio ancora, i riferimenti cinematografici. Non mi toccano, contrariamente da quelle pellicole che parlano di vita vissuta, come Mon Roi di Maïwenn, ad esempio.

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Avere un’empatia nei confronti delle persone è necessario per fare un film, ma sicuramente non è sufficiente. Cosa fa scattare il campanello che le dice che è il momento di fare un determinato film?

Mi ci vuole una storia vera, ovviamente, un materiale ricco, con delle avversità da superare che mi spingano a scrivere la storia. Poi, è tutta una questione d’intuizioni. È come un colpo di fulmine. In effetti, non saprei spiegarlo razionalmente. Improvvisamente, mi viene voglia di farlo, nasce in me un sentimento di urgenza.

Bisogna anche che, ciascuna nel suo genere, queste storie siano «esemplari»?

Esattamente. Tutti i miei film sono costruiti attorno a dei personaggi apparentemente ordinari, ma che rivelano in alcune situazioni, fuori dalla norma, un carattere e una resistenza straordinari, di fronte al conformismo. È un loro tratto comune. E se non sono anticonformisti dall’inizio, finiscono per diventarlo.

Lei è un cineasta di fiction non un documentarista, come fa a rispettare il più possibile la verità delle persone delle quali racconta la storia?

Spiego loro sin dall’inizio che la loro storia verrà raccontata con il massimo dell’esattezza possibile, ma che, malgrado tutte le precauzioni, non ci si ritroveranno completamente. Perché adattare è anche un pò tradire. Non fosse altro che per l’estrema semplificazione che si deve operare per raccontare trent’anni di una vita in solamente un’ora e trenta di film. La sfida è quindi quella di reinterpretare la loro storia, ma facendo sì che possano riconoscersi in essa alla fine, e facendo allo stesso tempo del cinema.

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A causa del soggetto, il suo film avrebbe potuto scadere nel sentimentalismo. Anche se a volte provoca grande emozione, non crea mai un effetto voyeurista.

Ho una teoria sull’emozione: più la soffochiamo, più finisce per sgorgare con forza. Non cerco mai di calcare l’emozione in una scena dicendomi «lo spettatore piangerà esattamente qui». Preferisco trattenerla, rimanere pudico e dignitoso, senza mai varcare la soglia del melodramma. Lasciare libero lo spettatore di piangere dove vuole e se ne ha voglia. Da quando faccio cinema mi sono sempre sforzato di non optare mai per l’emozione facile, di non suscitare il voyeurismo. E’ per questo che non amo essere associato ai ‘fatti di cronaca’. Trovo improprio questo collegamento. Faccio dei ritratti di persone.

Ha incontrato la mamma di Kalinka?

È stato André Bamberski a proporcelo. E lei ha accettato di darci la sua versione dei fatti, che perciò è ugualmente rappresentata nel film. Anche in questo caso, André non era affatto d’accordo con questa versione dei fatti, ma ha avuto l’apertura mentale di accettare questo punto di vista diverso nel film. E’ una grande soddisfazione per me aver ottenuto tutto questo, perché da tempo non si parlavano neanche. Un autore deve amare tutti i suoi personaggi, e deve comprenderli. E per quel personaggio che solleva diverse domande nel film, mi sono limitato a una visione molto semplice: il diniego. Il solo meccanismo di difesa che aveva trovato per non crollare.

Perché ha scelto Daniel Auteuil per interpretare André Bamberski?

Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, insieme a Julien Rappeneau, abbiamo pensato subito a lui. Daniel è un attore immenso, possiede un’interiorità eccezionale, riesce a esprimere la devastazione interiore attraverso un singolo sguardo.

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Quale immagine le piacerebbe che gli spettatori ricordassero del suo André Bamberski? Un uomo reso più nobile dall’amore per la figlia?

Certamente sì. Sublimare una scomparsa così dolorosa in una storia d’amore davvero bella. E’ molto difficile analizzare per quale motivo questa storia emani tale bellezza, tale poesia. Perché è così toccante? Una delle prime spettatrici del film mi ha detto che le sarebbe piaciuto avere un padre come lui. Ripensando a quella reazione mi viene da piangere. Potrebbe essere che questa storia sia proprio una sublime storia d’amore di un padre per sua figlia.

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