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L’Affido, una storia di violenza targata Xavier Legrand

Accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, premiato con il Leone d’argento per la migliore regia e il Leone del Futuro come migliore opera prima all’ultima Mostra di Venezia, giovedì 21 giugno esce al cinema L’Affido, il film scritto e diretto da Xavier Legrand con protagonisti Denis Ménochet, Léa Drucker, Thomas Gioria e Mathilde Auneveux. La pellicola rivela la violenza sotterranea, le paure taciute, le minacce sommesse vissute ogni giorno da migliaia di donne, in tutto il mondo.

Dopo il divorzio da Antoine (Denis Ménochet), Myriam (Léa Drucker) cerca di ottenere l’affido esclusivo di Julien (Thomas Gioria), il figlio undicenne. Il giudice assegnato al caso decide però per l’affido congiunto. Ostaggio di un padre geloso e irascibile, Julien vorrebbe proteggere la madre dalla violenza fisica e psicologia dell’ex coniuge. Ma l’ossessione di Antoine è pronta a trasformarsi in furia cieca.

Lasciamo ora spazio ad un estratto dell’intervista rilasciata da Xavier Legrand.

Ne L’Affido affronti il tema sociale della violenza domestica in un modo che genera una forte tensione per lo spettatore…

L’Affido è costruito sulla paura. La paura ispirata da un uomo pronto a tutto pur di tornare con la donna che è scappata da lui a causa del suo comportamento violento. Il personaggio di Antoine, interpretato da Denis Ménochet è una minaccia costante per chi gli sta intorno. Mette tutti in tensione, è in grado di percepire solo il proprio dolore ed è disposto a manipolare chiunque, persino i suoi figli. Le donne vittime di violenza domestica, come il personaggio interpretato da Léa Drucker nel film, sono sempre in allerta. Sanno che il pericolo può emergere ovunque, in qualsiasi momento, e nessuno è immune. In Francia ogni due giorni e mezzo una donna muore di violenza domestica, e nonostante i media ne parlino, l’argomento rimane un tabù. Le vittime hanno paura di denunciare, i vicini e i familiari non dicono nulla perché non vogliono interferire con la vita coniugale. C’è un’omertà pesante. Non ho voluto affrontare il tema come una vicenda di attualità. Ho voluto far crescere la consapevolezza del pubblico su questo tema usando il potere del cinema che mi ha sempre affascinato. In particolare quello di Hitchcock, Haneke o Chabrol, il tipo di cinema che coinvolge lo spettatore giocando con la sua intelligenza e i suoi nervi.

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Hai citato anche La Morte Corre Sul Fiume di Charles Laughton e Shining di Stanley Kubrick come fonti di ispirazione…

Tre film mi hanno guidato in fase di scrittura: Kramer Contro Kramer, La Morte Corre Sul Fiume e Shining. Li ho poi dimenticati durante le riprese, ma mi hanno aiutato a riflettere sul tema che volevo affrontare e a trovare gli umori e le atmosfere in cui far muovere i personaggi. Kramer contro Kramer è un film sui diritti dei genitori che ha avuto un grande effetto su di me. Per la prima volta si vede una donna ottenere la custodia esclusiva del proprio bambino e dipinge il dolore di una separazione con terribile acutezza. La morte corre sul fiume illustra come una persona possa essere inflessibile con dei bambini pur di ottenere i propri scopi. Shining mi ha ispirato per l’ultima parte del film in termini di follia, isolamento, terrore. La violenza domestica può portare all’orrore puro ed è questo orrore che volevo mostrare.

Come hai utilizzato i diversi generi e codici cinematografici – realismo, dramma sociale, thriller – per arricchire le diverse sfumature del film?

Prima di tutto ho fatto un lungo lavoro di ricerca. Ho seguito il lavoro di un giudice, ho intervistato avvocati, ufficiali di polizia, lavoratori sociali e ho addirittura partecipato a gruppi di terapia per uomini violenti. Un argomento così delicato richiede che ci si avvicini il più possibile alla realtà senza limitarsi a fare un documentario o un dramma sociale che alla fine racconterebbe solo la storia di un evento tragico. Invertendo il punto di vista, ho potuto evidenziare la suspense nella quotidianità. Ho adottato un approccio drammatico in cui seguiamo Antoine, ma dal punto di vista dei vari ostacoli che si frappongono al suo obiettivo: il giudice, suo figlio e la sua ex moglie. Lo spettatore vive in tempo reale il dubbio del giudice, la pressione a cui è soggetto il bambino e il terrore della moglie braccata. Volevo dare una lettura politica e universale del tema mentre immergevo lo spettatore in una trama da film di genere (quella del mostro che dà la caccia alla sua preda) in cui la suspense e la tensione nutrono la storia e viceversa.

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Cosa ti ha spinto ad affrontare lo stesso tema in entrambi i tuoi film?

Avevo già in mente L’Affido quando ho girato Avant Que de Tout Perdre. È un tema che mi colpisce come cittadino e che di sicuro non è sufficientemente trattato. Il mio corto mi ha portato ovunque in Francia e un po’ anche all’estero, dove è stato mostrato nelle scuole per aprire il dibattito ed educare i giovani sull’argomento. Volevo continuare a indagare la natura di questa violenza; il dominio maschile nelle relazioni, la follia della possessività che costituisce lo sfondo per molti casi. Volevo anche imparare qualcosa in più rispetto la distinzione fra la coppia matrimoniale e la coppia genitoriale. Un partner violento e inadatto deve necessariamente essere un cattivo genitore? Come si può giudicare? Ho incontrato un giudice e l’ho seguito durante il suo lavoro.

Inizi il film con uno stile quasi documentaristico, la scena in cui la coppia si reca davanti al giudice…

Devi avere in mente che queste audizioni sono davvero brevi – in venti minuti si decide il futuro di un bambino. Il sistema giudiziario francese prevede che se la violenza è diretta a un genitore e non al figlio non vi è necessità di tagliare ogni rapporto fra il minore e il genitore. È decisamente una questione complessa; anche se il bambino ha un bisogno legittimo di avere entrambi i genitori accanto a sé, può cristallizzare il conflitto e divenire un mezzo di pressione, uno strumento per il genitore che è stato allontanato e che non può più raggiungere il coniuge. Il giudice deve confrontarsi con 20 casi al giorno e dispone solo di pochi minuti per farsi un’idea della situazione e fare in modo che la legge venga rispettata di fronte a persone fragili che interpretano spesso un ruolo e ad avvocati più o meno competenti. Ho provato a trasmettere la tensione e il carico emozionale di quel momento filmandolo in tempo reale e ponendo lo spettatore al posto del giudice. I personaggi sono inquadrati sullo stesso livello e rappresentati dai lori rispettivi avvocati. A chi crederà il pubblico? Cosa vedrà svelarsi davanti agli occhi? A quale argomento sarà sensibile? Lo spettatore si tuffa nell’incertezza e deve farsi un’idea. Il film poi mostra cosa succederà dopo, un dopo che il giudice non vedrà mai.

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Sia Julien che la sorella giocano un ruolo importante nel film, e i loro ruoli richiedono che entrambi esprimano forti emozioni con pochissime parole. Come vedi la prospettiva del bambino, in particolare quella di Julien come contributo al film?

I ragazzi hanno davvero poche battute di dialogo perché questa è la vera essenza del problema: nella violenza domestica le voci dei bambini quasi non ci sono. E quando provano a parlare, quasi mai vengono ascoltati. Julien, essendo il figlio minore, è al centro del conflitto. Ci sono due tendenze che i bambini che crescono in un clima di violenza sviluppano di solito: o riproducono quella violenza o sviluppano una sindrome di iper-vigilanza per fare i conti con essa. Julien fa parte della seconda categoria. È continuamente in allerta usando i propri piccoli mezzi per proteggere sua madre. Joséphine invece sta aspettando di diventare adulta. Anche lei è stata cresciuta in un clima di violenza e sviluppa un atteggiamento tipico delle adolescenti: abbandona il nucleo familiare per creare prematuramente la propria famiglia, andando via con il fidanzato al termine della sua festa di compleanno. Attraverso i ragazzi mostro le differenti ripercussioni che un clima violento può causare nella stessa famiglia in maniera transgenerazionale. Joséphine ripropone un modello familiare, divenendo una giovane madre proprio come sua madre Miriam. Si può addirittura immaginare che sua nonna abbia innescato questo fenomeno. Diverse generazioni sembrano fuggire l’autorità paterna divenendo madri il prima possibile.

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