Una giovane Scarlett Johansson (domani compirà trent’anni) si siede sul davanzale di una enorme finestra di un albergo lussuoso di Tokyo. Smarrita, avvolta e persa nei suoi pensieri. Voci della mente tappate, proprio come la musica che ascolta nelle cuffie. Il personaggio di cui vi parliamo è Charlotte, il film quel Lost in Translation che Sofia Coppola girò in pochi ma ispiratissimi giorni di undici anni fa in Giappone. A oggi, forse la sua opera più bella.
Un film femmina, come già fu prima di questo Il Giardino delle Vergini Suicide (1999) e come fu in seguito Marie Antoinette (2006). Pellicole con il timbro rosa, dai sapori intimi e sensuali, velati e nascosti. Lost in Translation, e meno male che l’orrenda traduzione de “L’Amore Tradotto è stata di fatto accantonata ai posteri, è stata la prima grande prova di Scarlett e forse l’ultima grande occasione per Bill Murray, il vero protagonista della storia, di portarsi a casa un Oscar che avrebbe di certo meritato.
Chi ha amato ed ama questo film ancora oggi è libero di immaginare cosa si siano detti nell’orecchio i due americani ‘rapiti’ in un delirio di luci e rumori. Occhi che si cercano, mani che si sfiorano, sorrisi che nascono spontanei e che poi cadono dietro al ‘vorrei ma non posso’. Entrambi sposati ma confusi e senza stimoli, accesi solo dalla vicinanza dell’altro. In un letto, su un ascensore, durante un pazzo karaoke. Cercando qualcosa che sia, come canta Bob, More Than This.
Trionfa il non detto, l’intento implicito manifesto travolto da gesti strozzati, incompiuti. Si rincorrono emotivamente per tutto il tempo e quando finalmente, nel momento implacabile e necessario del saluto si parlano nell’orecchio, la Coppola non ci fa sentire nulla. Lei si asciuga una lacrima e sorride, ma che le avrà detto l’ex Ghostbuster?
Forse è proprio questa, insieme a tanti altri aspetti, la forza eterna del film della figlia di Francis Ford. Immaginare senza comunicare, regalando allo spettatore l’interpretazione e la lettura delle emozioni. Lui è considerevolmente più vecchio di lei. Lei per lui è la giovinezza immortale, un motivo molto più eccitante rispetto ad una triste scelta verso cui lo pone sua moglie dagli States (gli faxa un modellino stile Ikea di un mobile e gli manda dei campioncini per scegliere un colore).
Lui per lei è protezione, e quando stanno sdraiati a letto solo sfiorandosi a distanza di sicurezza, sicuramente Charlotte riceve molto più calore rispetto agli abbracci distratti del giovane marito fotografo. Sicuramente si tratta di una situazione, geografica e sentimentale, particolare. Per questo siamo di fronte ad uno smarrimento. Non solo un problema di traduzione che fa solo sorridere in qualche momento, ma soprattutto smarrimento d’animo. La società che la timida Charlotte vede oltre il vetro della finestra sembra fondere per eccesso di velocità. Luci lampeggianti, pubblicità, rumori, suoni, traffico. Realtà pura, presa diretta da documentario. Un’idea di frenesia che il Giappone 2003 forniva in modo esemplare.
Eppure, seppur in termini numerici inferiori, oggi ci rivediamo molto anche di USA e di metropoli europee moderne. Un motivo che rende il film ancora attualissimo, cogliendo al volo l’assist della ricorrenza della cifra tonda. Un mondo che corre, una centrifuga impazzita alla ricerca forse di un senso più grande. Dove stiamo andando così di fretta? A cosa portano tutti questi stimoli visivi e sonori?
L’idea che danno i protagonisti della storia è quella che forse viviamo ancora noi oggi, un decennio dopo. Un malessere diffuso, un’insoddisfazione profonda. La luce è l’amore, è il sentimento intimo. Per questo quando lo si trova, o si crede di trovarlo, la timidezza e le palpitazioni interrompono per un attimo tutta la giostra intorno.
Lost in Translation piace anche per questo aspetto romantico. Una relazione platonica che non si consuma ma che lascia un segno. Così lontano, in questo caso, dalla carnalità super esibita di oggi e dalle derive bestiali e sempre più spesso tragiche che da questa derivano. Se la società ipertecnologica corre sempre più forte, forse il vero amore ha bisogno di rallentare, di uscire da questo schema di tutto e subito, tipico anche del consumismo sfrenato. Donne oggetto da collezionare e buttare dopo l’uso, private di ciò che provano e sentono.
Se la società nipponica appare ancora oggi immutata nel suo essere meccanica e a tratti asettica (ricordate le reazioni quasi composte durante il terribile terremoto del 2011?), la nostra Italia oggi sembra cavalcare questa velocità alla ricerca disperata e bramosa di profitti individuali. Sempre più avvolta nell’egoismo e mascherata di un calore in realtà utilitaristico.
È in quel suono soffocato, dolce e sofisticato (splendida è infatti la colonna sonora orientaleggiante), che viene fuori quella parte di noi che cerca di capire. Cosa vogliamo veramente, per chi ci batte il cuore. Dove stiamo andando e perché.
Una incomunicabilità più positiva rispetto a quella amara e quasi spietata di Michelangelo Antonioni (si ricordi L’Avventura o L’Eclisse o il tragico Il Grido). Forse sullo schermo non vediamo e non sentiamo, ma l’impressione è che Bob e Charlotte vogliano urlare la loro voglia di vivere davvero. In questo si capiscono al volo. Con occhi e mani che accarezzano e rispettano, lontane dalla materialità superficiale ed istintiva.
Semplice tenerezza con la promessa e la speranza di un domani da vivere e condividere. Tutti momenti che la Coppola ci ha regalato con questo gioiello premiato con un Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale. Quei momenti in cui a provare piacere è l’anima.
Giacomo Aricò