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L’Ufficiale e la Spia, la sfida all’ingiustizia da Émile Zola a Roman Polanski

Dopo la presentazione in Concorso alla 76. Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria, dal 21 novembre arriva nei nostri cinem L’Ufficiale e la Spia (J’Accuse), il film diretto dal maestro Roman Polanski che affronta l’affaire Dreyfus partendo dall’omonimo romanzo del regista Robert Harris. La pellicola, dal 21 novembre al cinema, ha come protagonisti Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner e Grégory Gadebois.

Il film

Gennaio del 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière diano vita a quello che convenzionalmente chiamiamo Cinema, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart (Jean Dujardin), un ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus (Louis Garrel), un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Un atollo sperduto dove Dreyfus lenisce angoscia e solitudine scrivendo delle lettere accorate alla moglie lontana. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. E se Dreyfus fosse stato condannato ingiustamente? E se fosse la vittima di un piano ordito proprio da alcuni militari del controspionaggio? Questi interrogativi affollano la mente di Picquart, ormai determinato a scoprire la verità anche a costo di diventare un bersaglio o una figura scomoda per i suoi stessi superiori. L’ufficiale e la spia, adesso uniti e pronti ad ogni sacrificio pur di difendere il proprio onore.

Un clamoroso errore giudiziario

L’affare Dreyfus è uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia, avvenuto in Francia tra il 1894 e il 1906 e che vide protagonista il soldato ebreo francese Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di essere una spia e quindi processato per alto tradimento. Dreyfus sostenne fermamente la sua innocenza combattendo contro un’intera nazione. Il suo caso ebbe una notevole risonanza mediatica dividendo l’opinione pubblica del tempo, tra chi ne sosteneva l’innocenza e chi lo riteneva invece colpevole. Tra gli innocentisti si schierò Émile Zola, il quale scrisse un articolo in cui puntava il dito contro il clima di antisemitismo imperante nella Terza Repubblica francese. Tale intervento venne intitolato proprio J’Accuse.

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Roman Polanski

Riportiamo qui di seguito un estratto dell’intervista rilasciata da Roman Polanski a Pascal Bruckner.

Roman Polanski, perché ha voluto girare un film sull’Affare Dreyfus, sulla svolta decisiva che rappresenta nella storia della Francia e dell’Europa?

Dalle grandi storie spesso nascono grandi film e l’Affare Dreyfus è una storia eccezionale. La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affascinante, inoltre è un tema estremamente attuale vista la recrudescenza dell’antisemitismo.

La vostra scelta narrativa è stata quella di fare del colonnello Picquart il protagonista principale del film. All’epoca, era uno scapolo e la sua amante (interpretata da Emmanuelle Seigner) era sposata con un alto ufficiale dello Stato. È un outsider e un ‘banale antisemita’, così come lo erano tutti alla fine del XIX secolo. Eppure, sarà lui a salvare involontariamente Dreyfus…

Il colonnello Picquart è un personaggio affascinante e complesso. Non è un fervido antisemita. Non gli piacciono gli ebrei ma più per consuetudine che per convinzione personale. In quanto ufficiale del controspionaggio, quando scopre che Dreyfus è innocente, prende molto a cuore il caso e decide di scoprire la verità. Quando ne parla al suo superiore, gli viene intimato di tacere: l’esercito non avrebbe mai potuto commettere un simile errore! Nonostante la débâcle del 1870, l’esercito come la Chiesa è sacrosanto. Non interessa a nessuno che i soldati si sentano in colpa o affrontino un dilemma morale: si tratta di Verità e Giustizia.

Jean Dujardin

Jean Dujardin

Cosa fa decidere il colonnello Picquart ad opporsi alla versione ufficiale? La purezza dei suoi principi morali o allora la sua ubbidienza all’etica militare?

Nel film c’è una discussione memorabile tra Picquart e il maggiore Henry, il suo principale antagonista. Il maggiore Henry dice: “Mi ordina di uccidere un uomo e io lo faccio. Mi dice che è stato un errore, mi dispiace ma non è colpa mia. L’esercito è così.” E Picquart risponde: “È forse il suo esercito, maggiore, no di certo il mio”. Questa battuta riflette una realtà ancora attuale. I soldati sono obbligati ad uccidere per il loro Paese ma se pertanto un crimine di guerra è commesso non sono obbligati ad insabbiarlo.

Ad un certo punto, il colonnello Picquart si trova nella stessa situazione difficile di Dreyfus: arrestato, denunciato e accusato di tradimento dall’estrema destra.

Perché decide di agire secondo coscienza ed è animato dal bisogno di conoscere la verità piuttosto che di ubbidire all’etica militare. Tutto inizia con un dubbio che sorge a proposito della somiglianza tra la calligrafia di Esterhazy e quella in cui è scritta una lettera recuperata all’Ambasciata tedesca, il famoso “bordereau”, poi il dubbio lo spinge progressivamente ad indagare. Picquart continua ad investigare sebbene gli sia stato detto di smettere e scopre nuove prove della colpevolezza di Esterhazy. E man mano che la verità affiora, è sempre più inorridito dalla gravità dell’errore.

Il padre del filosofo Emmanuel Levinas (1906-1995), un libraio lituano, a quanto pare gli consigliò di trasferirsi in Francia, sostenendo che “un Paese che si divide per l’onore di un piccolo capitano ebreo, è un Paese in cui una persona giusta dovrebbe sbrigarsi ad andare”.

È vero, all’epoca c’erano gli “antidreyfusardi” ma anche i “dreyfusardi” e alla fine è stata provata l’innocenza di Dreyfus. Quindi la Francia ne esce piuttosto bene, sebbene il caso sia stato risolto dopo venti anni rischiando di far sprofondare il Paese in una guerra civile.

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Louis Garrel

Il film presentava un’altra sfida, quella di far conoscere l’Affare Dreyfus ad un pubblico giovane a cui la storia non è nota.

Quando mi chiedevano dei miei progetti e rispondevo che stavo lavorando ad un film sull’Affare Dreyfus, tutti pensavano che fosse fantastico. Ma ben presto mi sono reso conto che molti non sapevano cvvosa fosse davvero accaduto. È uno di quegli eventi storici che tutti pensano di conoscere, ignorandone però la reale essenza.

Il film ha un interesse didattico, in quanto permette a tutti, compresi quelli che non conoscono niente di questo caso, di capire la sfida politica e filosofica che affronta Picquart.

Si tratta quasi di un’indagine poliziesca. Lo chiamerei addirittura un giallo. La storia è narrata da un punto di vista completamente soggettivo, il pubblico condivide ogni fase dell’indagine con Picquart. Ogni evento fondamentale è autentico, sono le stesse parole che furono proferite allora, perché sono tratte dalle registrazioni dell’epoca.

C’è l’ostilità dell’opinione pubblica, del maggiore Henry che vuole prendere il posto di Picquart, dello Stato Maggiore, e poi ci sono tutti quelli che vogliono aiutare Dreyfus come Emile Zola e Clemenceau.

È stato Emile Zola a portare alla luce il caso scrivendo il suo famoso J’accuse, una lettera scritta al Presidente della Repubblica Francese che fu pubblicata sulla rivista L’Aurore. Senza questa lettera chissà come sarebbe finita. Anche Clemenceau ha giocato un ruolo determinante. Sette anni dopo la fine del caso, quando era Primo Ministro, nominò Picquart Ministro della Guerra. Picquart pagò caro il suo coinvolgimento in quanto fu condannato ad un anno di prigione e ad una multa di 3000 franchi francesi. Morì asfissiato dal fumo della sua stufa; alcuni dicono che sia stato assassinato dagli antidreyfusardi. Ad ogni modo, il giornale antisemita di Edouard Drumont, La Libre Parole esultò alla notizia della sua morte.

Emmanuelle Seigner

Emmanuelle Seigner

Nel suo film si possono vedere anche dei manifesti con su scritto ‘Morte agli ebrei’. L’antisemitismo non è sparito, è cambiato, ha assunto un altro volto, è diventato un argomento per gli estremisti di sinistra, i nemici di Israele e gli islamisti radicali. Crede che oggi un nuovo caso Dreyfus possa verificarsi o allora le sembra impensabile?

Con le nuove tecnologie sarebbe impossibile immaginare un caso in cui una persona viene accusata in base ad un’analisi grafologica sbagliata. E sicuramente non nell’esercito, in quanto la mentalità militare è cambiata. L’esercito non è più ‘sacrosanto’. Oggi abbiamo il diritto di criticare qualsiasi cosa incluso l’esercito, mentre a quel tempo lo stesso aveva un potere illimitato. Ma un altro caso, sì, è possibile.
Ci sono tutti gli elementi perché possa succedere: false accuse, pessime procedure giudiziarie, giudici corrotti, e soprattutto “social media” che condannano senza un processo equo e senza diritto di appello.

In quanto ebreo braccato durante la guerra e regista perseguitato dagli stalinisti in Polonia, sopravvivrà all’attuale maccartismo femminista che le dà la caccia e cerca di impedire la proiezione dei suoi film, e che tra le tante vessazioni l’ha fatta cacciare dall’Oscar Academy?

Lavorare, fare film come questo mi aiuta molto. In questa storia, ritrovo momenti che io stesso ho sperimentato, posso osservare la stessa determinazione nel negare l’evidenza e nel condannarmi per cose che non ho commesso. La maggioranza delle persone che mi perseguitano, non mi conoscono e non sanno niente del caso.

Questo film è stato una catarsi per Lei?

No, non lavoro così. Il mio lavoro non è una terapia. Comunque devo ammettere che molte delle dinamiche che sono dietro il sistema persecutorio mostrato nel film, mi sono familiari e mi hanno chiaramente ispirato.

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La persecuzione che Lei vive è cominciata con l’assassinio di Sharon Tate?

La maniera in cui la gente mi vede, la mia ‘immagine’ ha iniziato a delinearsi con la morte di Sharon Tate. Quando è accaduto, sebbene io stessi attraversando già un momento terribile, la stampa si impossessò della tragedia e, non sapendo esattamente come trattare la questione, l’affrontò nel modo più ignobile, insinuando, tra le altre cose, che io fossi responsabile dell’assassinio su uno sfondo di satanismo. Per la stampa, il mio film Rosemary’s Baby, era la prova che io fossi in combutta con il diavolo! Fu necessario che trascorressero molti mesi prima che, finalmente, la polizia trovasse i veri assassini, Charles Manson e la sua “famiglia”. Questa storia mi perseguita ancora oggi, ogni cosa è come una palla di neve, ogni stagione che passa, aggiunge un nuovo strato. Storie assurde di donne mai conosciute che mi accusano di cose accadute, in teoria, più di mezzo secolo fa.

Non vuole difendersi?

Per fare cosa? Sarebbe come combattere contro i mulini a vento.

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