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Omar Sy e il Senegal ne Il Viaggio di Yao diretto da Philippe Godeau

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Dal 4 aprile sarà al cinema Il Viaggio di Yao, una commedia tenera e divertente diretta da Philippe Godeau. Il film ha come protagonisti Omar Sy e il giovane Lionel Basse. I due intraprenderanno un viaggio insieme: tra mille avventure per la strana coppia sarà un rocambolesco ritorno alle radici.

Il film

Yao (Lionel Basse), un ragazzino di 13 anni che vive in un villaggio nel nord del Senegal, è disposto a tutto pur di incontrare il suo eroe, Seydou Tall (Omar Sy), un celebre attore francese. Invitato a Dakar per promuovere il suo ultimo libro, Seydou si reca per la prima volta nel suo paese d’origine. Per realizzare il suo sogno, il giovane Yao organizza la sua fuga e intraprende un viaggio in solitaria di 387 chilometri per raggiungere la capitale. Commosso dall’incontro con il bambino, l’attore decide di sottrarsi ai suoi obblighi professionali e di riaccompagnarlo a casa. Ma sulle strade polverose e incerte del Senegal, Seydou comprende che il percorso verso il villaggio del suo giovane amico, in realtà è anche un percorso verso le sue stesse radici.

Philippe Godeau

Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Philippe Godeau.

Aveva in mente questo progetto da molto tempo. Qual è stato l’elemento scatenante?

L’idea di questo film mi è venuta molto tempo fa. Ne ho parlato con Omar Sy perché ho intuito che sarebbe stato sensibile a questa storia, che ne avrebbe condiviso gli aspetti intimi e i valori che trasmette. Al di là della bellezza estetica ed esotica del Senegal, sono soprattutto i principi intrinsechi alla sua cultura che mi toccano e che volevo che emergessero nel film: il senso della famiglia, della condivisione, dell’accoglienza, della fede che si percepisce in modo molto forte quando ci si trova nel paese. Ho cercato di far sentire che, non lontano da noi, ci sono persone che vivono in modo differente e che questa diversità è una fonte di ispirazione.

ll viaggio di Yao 1

Qual è il suo rapporto personale con l’Africa?

Quando ero bambino e adolescente, mio padre lavorava nel pubblico impiego in Mali e io andavo a trovarlo laggiù. È stata una fortuna, una fonte di arricchimento per me che ho potuto scoprire una cultura e un quotidiano molto distanti dalla mia vita di giovane occidentale in quegli anni. In un’età in cui non pensavo ad altro che ad andare in motorino e a divertirmi, scoprivo dei ragazzini che facevano da insegnanti ad altri ragazzini, che avevano una grande sete di cultura, di libri, di informazioni, di Francia. Questa esperienza ha alimentato la sceneggiatura di Il Viaggio di Yao e il personaggio del bambino che ama leggere.

Si percepisce in lei, nel suo ruolo di regista e di produttore, la volontà di spingere il pubblico a valicare dei confini fisici e mentali.

Il cinema è un’arte, uno svago e un gesto politico. In me è presente il desiderio di aprire le porte di luoghi e di universi dove forse non avrei la voglia né la possibilità di andare di mia spontanea iniziativa. E insieme di invitare lo spettatore a visitarli. Il Senegal che mostro nel film non è tra i più turistici. Anche in questo caso c’è da parte mia il desiderio di far scoprire un paese e una cultura e magari di farli sentire un po’ meno lontani. Amo pensare che il cinema contribuisca in parte a scuotere le mentalità, a suscitare curiosità e ci permetta poi di andare più facilmente verso quello che è diverso da noi.

ll viaggio di Yao 2

La prima immagine che colpisce nel film è l’ingorgo di traffico nell’ora della preghiera. È diventato raro oggi sentire sullo schermo “Allah akbar” senza che vi sia associata una valenza drammatica.

È una scena che mi ha ispirato mentre facevo un sopralluogo in Senegal. Sono rimasto colpito da quell’istante in cui tutti pregano insieme per la strada in un clima di grande quiete. Anche in questo caso non ho voluto accompagnare la sequenza con un commento: la mostro tale e quale l’ho osservata. È un momento che fa parte della vita quotidiana dei senegalesi. Siamo rimasti tutti segnati dai molteplici attentati islamisti che hanno, tra le altre cose, dato spunto a numerosi film o serie televisive. Io avevo voglia di tornare a una verità che la vita reale mi ha permesso di scoprire: in Senegal, i mussulmani pregano tutti insieme, per la strada, a una data ora. Ho filmato questa realtà in campo lungo, sia frontalmente sia a distanza, con una semplicità che mi auguro venga percepita come tale.

È la parte documentaria del film che tuttavia rivendica anche il suo territorio immaginario e si colloca a metà tra il road-movie e la fiaba. Da dove viene il suo gusto per questa zona di frontiera?

Ho sempre amato situarmi al confine tra la realtà e la finzione. Ho bisogno di credere a quello che vedo, a quello che filmo. Adoro il momento in cui non so più dove mi trovo tra il reale e l’immaginario, adoro la piccola vertigine che quell’istante suscita. Credo nel potere del cinema di ampliare le coscienze e mi piace quando il fantastico e il realismo si sostengono a braccetto. Ho l’impressione che a contatto uno dell’altro diventino virtuosi. Soprattutto in una società come la nostra in cui ciascuno deve stare al suo posto e si ha paura del diverso. Quando il cinema ci permette di affrontare le nostre paure e di renderle meno terrificanti è straordinario! Il cinema ci consente di entrare nelle case delle persone e di guardarle in modo diverso. Vorrei che Il Viaggio di Yao consentisse agli spettatori di interrogarsi sul concetto di diversità.

ll viaggio di Yao 3

Tra i film che ha realizzato finora, Il Viaggio di Yao è il più pacificato o sbaglio?

Penso che sia soprattutto merito di quelle emozioni che suscita quel paese. Il tempo africano e il tempo occidentale non sono gli stessi. Quando arrivi in Senegal, il rapporto con il tempo così diverso dal nostro, ha un impatto potentissimo. Seydou chiede all’autista del pullman quando è prevista la partenza e si sente rispondere “quando il pullman sarà pieno”. È una realtà che avevo voglia di restituire, perché ci fa riflettere e ci scuote nelle nostre reazioni e nelle nostre certezze, noi che siamo sempre di corsa. È un’esperienza che aiuta a ristabilire le priorità.

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