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Psychedelic, la vita senza confini di Davide Cosco

Presentato nella sezione Alice Nella Città all’ultima Festa del Cinema di Roma, su Amazon Prime Video è disponibile alla visione on demand Psychedelic, l’opera prima di Davide Cosco che ha guidato un cast composto da Massimiliano Rossi, Yari Gugliucci, Giuseppe Amelio, Ksenija Martinovic, Alessandro Haber, Pietro De Silva ed il compianto Flavio Bucci.

Massimiliano Rossi

Massimiliano Rossi

Il film 

Paul (Massimiliano Rossi) è un attore in crisi, lasciato dalla moglie, contestato dal figlio, stanco di una vita dalla quale non trova risposte ed a cui cerca più volte di porre fine, quale grottesco tentativo di dare a tutti i costi un finale alla sua inconclusa opera teatrale. Attratto dai sentimenti e dall’arte più che dai bisogni ordinari, ha delle continue visioni psichedeliche che rendono complessa la sua quotidianità. È accompagnato nel suo viaggio esistenziale da Mario, l’amico produttore teatrale, ironico e dal cuore dolce. Nella casa, che è anche un vero teatro simbolico, fa presto ritorno Ernesto (Giuseppe Amelio), il figlio di Paul, un giovane sassofonista ribelle che frequenta una Chiesa aperta agli ultimi, ai diversi, guidata da Padre Carlo (Ksenija Martinovic), figura alternativa ai crismi ecclesiastici.

Padre Carlo, pur nella sua fede profonda, è combattuto dalla doppiezza quasi inevitabile al genere umano. A distanza si muove la vita del padre di Paul e nonno di Ernesto, Francesco (Alessandro Haber), gravemente malato, e ritiratosi in una vecchia casa sul mare. Francesco non parla più con nessuno, se non attraverso i messaggi vocali lasciati negli auricolari di suo nipote. Tutti, in modo differente, cercano di tenere unite queste esistenze frammentate e protese verso una dimensione legata all’immaginazione e alla ricerca di un altrove.

Giuseppe Amelio

Giuseppe Amelio

Davide Cosco racconta… 

Psychedelic è un racconto di finzione, che narra di fatti verosimili o inventati, di epoca contemporanea. Nella costruzione di una caleidoscopica costellazione di personaggi, il film intende tratteggiare, per sconfinamenti e simbolismi, un possibile viaggio che la nostra immaginazione può compiere, come singoli istanti di luce nella profondità della notte. L’idea di realizzare Psychedelic, dal greco psykhé, anima, e dêlos, chiaro, è nata sostanzialmente dalla volontà di avvicinare le esperienze materiali e immateriali che generazioni differenti hanno modo di compiere, attraverso un allargamento della propria coscienza e del proprio spirito, provando così a raccontare un carillon di anime antiche e nuove al contempo. Soggetti che da mondi paralleli cadono nelle proprie paure, sprofondano nei propri tormenti, rinascono nelle soffuse auree, nelle sottili ambizioni, accarezzano le tenere gioie e le effimere utopie. Per come possono, per quanto gli riesce, si interrogano sul senso dell’altrove. Oppure rimangono semplicemente fermi”.

La cornice non impone nulla. Le luci psichedeliche si accendono e si spengono nella mente di Paul che è un attore in ricerca, emblema della sempiterna attualità del Novecento, secolo fustigato dalle guerre, segnato dalle rivoluzioni, eternizzato dall’arte. Così elegante, sontuoso nella sua debolezza; reminiscenza di aristocrazia e ghetto proletario, misto di psicanalisi e irriverenza, avanguardie e stravolgimenti. Un secolo non concluso che rilascia ancora il suo siero di dolce malinconia, come delle lettere scritte a mano in un vecchio baule, sofferente ma incapace di arrivare all’ultimo stadio del dolore che è probabilmente la morte e il definitivo sopraggiungere del nichilismo. Richiamo di morte che ritorna spesso nel film, ma che viene puntualmente scacciato da una fievole e allo stesso tempo irrefrenabile voglia di vivere.  La Chiesa, metafora della grande madre, è il luogo – non luogo dove finiscono molti sentimenti. La Chiesa è Donna. È una Chiesa aperta ai diversi, agli ultimi, ai dimenticati, agli scacciati via, ai poveri, ai diseredati, a quelli che quando camminano sopra tappeti sfarzosi, hanno il maldestro imbarazzo di chi ha le scarpe sporche”.

Aida Flix

Aida Flix

Una Chiesa dal respiro nuovo, secolarizzata, ecumenica, dal retrogusto laico e non antidogmatico, decadente ma non decaduta, dove si ascoltano le scritture e si provano a tramutare nella complessa caducità delle cose. Bene e male finiscono per fare capolino nei corpi e nei pensieri che fluttuano per luoghi senza definizioni forzate e retoriche, entrando in un sassofono ed uscendo da un acquario metafisico.  Il film non giudica nessuno. Non ci sono né vinti, né vincitori nel lungo gioco dell’esistenza. L’interesse viene riposto nei grandi dogmi che accompagnano dalla notte dei tempi e nell’ultimo buco di mondo, in uno scenario indecifrabile e, probabilmente, inarrivabile, che è il cuore dell’individuo. Contraddizioni, debolezze umane, flussi di coscienza, misteri, speranze nuove, appaiono sconquassanti poiché poste in ascolto e disponibilità verso l’altro. L’altro non è mai un nemico, ma un’occasione. La vita di tante persone può sembrare poco interessante, quando magari lo è. Il nostro tempo ci propone una rappresentazione troppo muscolare dei modelli vincenti. Se non retorica, ipocrita e terrorizzata dal non allineamento, quando partorita dalla seconda borghesia della storia”.

I personaggi del film provano a divenire una somma o una sottrazione emotiva piuttosto che un computo algebrico. Contesti inavvicinabili tentano ad approssimarsi, e mete si allontanano continuamente. Ciascuno resiste e non smette di cercare. I simboli continuano ad essere libera proprietà di nessuno e di tutti. Per questo appaiono impercettibili riflessi politici. Non di parte, ma come esigenza di ritrovare una dimensione ispirata alla solidarietà, al bene comune, alla felicità. Il tempo inteso come durata, detta un ritmo possente. I giovani si mettono in cammino, convivono con i conflitti, sono giovani come tanti meravigliosi giovani contemporanei, che provano ad oltrepassare il muro di una società che troppo spesso li obbliga alla rassegnazione e all’omologazione. Diciamo molto lieto a troppa gente che non siamo lieti di conoscere e dimentichiamo quelli che non vorremmo dimenticare.  Condividere significa irrimediabilmente possedere una visione ottimistica del futuro, senza preoccuparsi troppo della natura provvisoria degli stati d’animo o di avvertire inevitabili mancanze. Le cose non sono sempre vere totalmente”.

Alessandro Haber

Alessandro Haber

Il film prova a pensare i vuoti. Le assenze. I rumori bianchi. Prova soprattutto a mettersi in ricerca con modalità matte e disperatissime, come di chi vuole vedere il mare per la prima volta. Gli attori, i tecnici, i professionisti che hanno lavorato al film, hanno dato tutto. Nella maniacale ricerca del dettaglio – quando poi le grandi cose accadono magari mentre spremi un’arancia o ti soffi il naso – abbiamo insieme provato a costruire un microcosmo delicato e fragoroso.  Spero che il film porti sempre con sé il profumo e i colori che lo hanno caratterizzato, anche di chi purtroppo ci ha lasciati come Flavio Bucci, magnifico eroe di una recitazione raffiné inzuppata di sacro e profano. Spero che il film non si concluda con la visione, ma che possa accompagnare quanti avranno voglia di varcare una soglia. Che è appena lì, dietro l’angolo. Dentro noi stessi. Nell’esperienza emotiva di rievocare il mondo che si vedeva da bambini. Nella speranza di ripensarci sempre nuovi, convivendo con i conflitti, la vergogna e la grazia di stare al mondo. Ho compreso che ciascuno ha da offrire qualcosa, che non possiamo soffermarci reiteratamente sui nostri bisogni primordiali. Importanti e da salvaguardare, ma che in un momento storico delicato, occorre spingersi dove comincia il lontano. Perché la fine è qualcosa che non finisce. Tutto ricomincia. Psychedelicamente”.

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