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Revolution of Our Times, la battaglia tra Hong Kong e Cina secondo Kiwi Chow

Prima di essere un documentario potente, Revolution of Our Times è un documentario coraggioso. Molto coraggioso. Perché ci vuole davvero tantissima forza e tantissima consapevolezza per scegliere da che parte stare a Hong Kong. E se la scelta è quella di stare dalla parte della libertà e della giustizia, allora i rischi che si corrono sono evidenti e concreti. Gli stessi che ha corso, e corre, il regista hongkonghese Kiwi Chow (Ten Years) per aver firmato un’opera come Revolution of Our Times, attesa nei cinema italiani a partire dal 30 giugno.

Il documentario

15 marzo 2019: inizia la battaglia che oppone Hong Kong e la Cina continentale. È passato meno di un mese dalla proposta di legge governativa sull’estradizione, una legge che di fatto spezzerebbe la linea di autonomia tra i due sistemi giuridici, e il cuore della città prende fuoco… Revolution of Our Times è, appunto, il racconto di quel fuoco. Di quella gigantesca rivolta popolare che culminerà nel lungo assedio al Politecnico e finirà per coinvolgere due milioni di persone. Soprattutto giovani e giovanissimi. Un documentario tanto asciutto quanto doloroso, costruito dal regista Kiwi Chow alternando le testimonianze dirette dei protagonisti e le incredibili immagini riprese durante i cortei e le manifestazioni. Passato a Cannes quasi clandestinamente, Revolution of Our Times ci racconta – e ci mostra – i fatti dall’interno. Dalla crudezza della prima linea. Ci fa sentire – e capire – quanto sia forte il senso di appartenenza degli hongkonghesi per Hong Kong, ancora lontana dal proprio sogno di libertà 25 anni dopo l’handover che l’ha restituita alla Cina.

Kiwi Chow

Vi presentiamo qui sotto l’intervista rilasciata dal regista al The Hollywood Reporter.

Cosa ti ha spinto a prendere in mano la telecamera per riprendere le proteste?

All’inizio non ero propenso a partecipare. Poi molti cittadini di Hong Kong si sono uniti ai manifestanti e sono rimasto colpito da tutte le persone che sono scese in strada per perseguire la democrazia, la libertà e la giustizia. È stato allora che ho avuto l’idea di testimoniare ciò che stava accadendo e, come regista, la mia prima idea è stata quella di realizzare un documentario.

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Immagino che ci sia stata molta improvvisazione da parte tua trovandoti in prima linea.

Sì, non sono un giornalista e stavo girando un documentario, quindi la telecamera che usavo non era quella che usano i giornalisti per catturare le immagini da lontano. Il mio approccio è stato quello di osservare da vicino i manifestanti, di ascoltare le loro conversazioni e di vivere ciò che stavano vivendo. La sfida più grande è stata quella di ottenere la loro fiducia. C’era molta diffidenza e molte volte sono stato erroneamente identificato come un potenziale infiltrato. Non sono un reporter, non avevo alcun documento di identità che identificasse i miei scopi, quindi i manifestanti mi temevano e mi urlavano contro. Spesso mi chiedevano per quale testata lavorassi e io, non sapendo come rispondere, dicevo che ero uno dei registi di Ten Years. Chi l’avrebbe detto? Da quel momento, Ten Years è diventato il mio lasciapassare e mi ha anche permesso di essere presentato ai Valiant. A Hong Kong ci sono due gruppi di manifestanti: il gruppo non violento, che procede in modo molto pacifico e razionale, e il loro opposto, i Valiant. Questo gruppo è più impegnato nel conflitto fisico.

Come sono andate le cose con i Valiant?

È stato quasi come fare il casting di una fiction televisiva. Si sono messi in fila davanti a me e abbiamo parlato per qualche ora delle loro esperienze. Alla fine ho detto che avrei volevo seguire e filmare le loro attività e hanno accettato.

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Ci sono stati momenti in cui hai sentito che la tua sicurezza personale era a rischio?

Oh, sì. Una volta ho seguito un Valiant fino alla prima linea del conflitto e all’improvviso tutti hanno iniziato a urlare e ho sentito qualcuno dire “Esci”, ma mi sono bloccato e per qualche motivo non ho risposto. Così tutti sono usciti e io sono stato l’unico a non farlo. Ero lì in piedi e sono stato colpito da un proiettile di plastica alla testa. Per fortuna avevo il casco. Ero scioccato ma non ero ferito. Ma in quel momento mi sono sentito in pericolo di vita: avrei potuto essere colpito all’occhio o al volto. Sono strisciato e sono corso indietro dalla prima linea e ho controllato il mio elmetto, che era ancora a posto, così ho continuato a filmare… Noi hongkonghesi abbiamo una tattica di resilienza: “essere come l’acqua”. Io, però, vorrei suggerire una nuova versione: “essere come il sangue”. Siamo stati tutti profondamente feriti da ciò che abbiamo passato negli ultimi tre anni, ma credo che i nostri legami reciproci non siano mai stati così forti e la nostra volontà di resistere al regime non sia mai stata così alta. Abbiamo tutti un nuovo senso di unità grazie a quello che abbiamo passato insieme. Perciò dico: “siate come il sangue”, perché siamo una sola persona, una sola famiglia, una sola comunità.

Molti attivisti sono fuggiti da Hong Kong. Ha mai pensato di lasciare la città prima che si venisse a sapere di Revolution of Our Times?

Non credo sia giusto per me lasciare Hong Kong: se si va via per paura, questa non è libertà, non è ciò che io considero libertà. La libertà che ho in mente non riguarda il mio corpo fisico, ma il mio spirito e la mia anima. In questo momento, mi sento profondamente in pace. E non mi sentirei così se lasciassi Hong Kong. Questo è stato uno dei messaggi che l’intera campagna del 2019 mi ha trasmesso. Si vedevano tanti ragazzi che, a prescindere da tutto, lottavano per un obiettivo fondamentale: la libertà e la giustizia. Credo di aver seguito il loro esempio.

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Ti aspetti di essere arrestato?

Sì, probabilmente. Ho cercato di prepararmi mentalmente all’arresto, ma spero di saperlo affrontare quando succederà davvero.

 

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