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Ritratto Della Giovane in Fiamme, arte e bruciante passione femminile

Giovedì 19 dicembre arriva nelle sale Ritratto Della Giovane in Fiamme, il nuovo film di Céline Sciamma premiato al Festival di Cannes, dove è stato insignito del riconoscimento per la Migliore Sceneggiatura e della Queer Palm. La pellicola, che è stata anche designata Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI e ha ricevuto il Premio per la Miglior Sceneggiatura anche agli European Film Awards 2019, è stato candidato ai Golden Globe 2020 come Miglior Film Straniero. Quella della Sciamma è una storia d’amore potente e delicata, ambientata nella Francia di fine ‘700, offrendo al contempo una riflessione attualissima sulla condizione della donna nella società e nell’arte.

Il film

1770. Marianne (Noémie Merlant), pittrice di talento, viene ingaggiata per fare il ritratto di Héloise (Adèle Haenel), una giovane donna che ha da poco lasciato il convento per sposare l’uomo a lei destinato. Héloise tenta di resistere al suo destino, rifiutando di posare. Su indicazione della madre (Valeria Golino), Mariane dovrà dipingerla di nascosto, fingendo di essere la sua dama di compagnia. Le due donne iniziano a frequentarsi e tra loro scatta un amore travolgente e inaspettato.

Céline Sciamma

Vi proponiamo qui di seguito un estratto dell’intervista rilasciata dalla regista Céline Sciamma.

Fino ad ora hai avuto la tendenza a confrontarti con temi contemporanei, da regista della nostra epoca quale sei. Come mai hai deciso di fare un salto indietro nel tempo e di girare un film ambientato nel XVIII° secolo?

Non è detto che qualcosa che risale a tanto tempo fa sia per questo meno rilevante oggi. Specialmente se si tratta di una storia poco conosciuta, come quella delle artiste donne, o perfino delle donne in generale. Quando mi sono immersa nello studio della documentazione per il film, sapevo pochissimo della realtà delle artiste di quell’epoca. Conoscevo solo quelle più famose di cui è provata l’esistenza: Elisabeth Vigée Le Brun, Artemisia Gentileschi o Angelica Kauffman. La difficoltà a raccogliere informazioni e materiali d’archivio non ha però impedito che la consistente presenza di donne nel mondo dell’arte della seconda metà del XVIII° secolo emergesse con forza. Le donne pittrici erano numerose e avevano un certo successo, soprattutto grazie alla moda dei ritratti. C’erano donne esperte d’arte, rivendicazioni per una maggior uguaglianza e per una maggiore visibilità, c’era di tutto. In questo contesto un centinaio circa di pittrici hanno avuto vite e carriere di successo. Molti dei loro lavori appaiono nelle collezioni dei più importanti musei. Ma sono rimaste escluse dalle cronache e dai resoconti storici. Quando ho scoperto le opere di queste pittrici dimenticate ho provato al tempo stesso una grande emozione e un grande dispiacere. Il dispiacere per l’anonimato totale nel quale sono stati relegati questi lavori, condannati a restare nascosti. Ho sofferto non solo per essermi resa conto di come la storia dell’arte ufficiale li abbia resi invisibili ma anche per le conseguenze: quelle immagini mi turbano e mi commuovono soprattutto perché non hanno fatto parte della mia vita.

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Come hai affrontato le questioni di regia collegate alla ricostruzione storica?

Un film in costume sembra richiedere più lavoro degli altri film, perché comporta l’assunzione di persone, di tecnica, esigenze particolari, esperti, e ansie relative ad una ricostruzione fedele. In realtà il processo per la sua realizzazione è uguale a quello di tutti gli altri film. Una volta esclusi gli anacronismi, bisogna fare attenzione alla verità storica delle scene e dei costumi, così come si presta attenzione al realismo per i film contemporanei. La questione di fondo è la stessa: come l’immaginazione possa operare senza tradire la realtà. Paradossalmente di tutti i miei film questo è quello per il quale abbiamo avuto meno da fare sui set. Abbiamo girato in un castello disabitato e non restaurato, in cui gli elementi lignei, i colori e i pavimenti sono rimasti come congelati nel tempo. Avevamo così un buon punto di partenza e abbiamo potuto dedicare maggiore attenzione agli arredi e agli oggetti di scena, ai materiali e ai tessuti. Fin da quando ho cominciato ad immaginare il film, per me la grande sfida nella ricostruzione storica ha riguardato di più la sfera intima, la rappresentazione dei sentimenti. Anche se queste donne sapevano fin dall’inizio che la loro vita era segnata, hanno vissuto qualcosa di diverso. Erano curiose, intelligenti e volevano amare. I loro desideri esistevano, nonostante vivessero in un mondo che li negava e li proibiva. Si riappropriano dei loro corpi quando possono rilassarsi, quando si sottraggono alla vigilanza, quando sfuggono al controllo sociale, quando sono sole. Volevo restituire loro l’amicizia e i dubbi, i loro comportamenti naturali, il divertimento, il desiderio di fuggire.

In questo film racconti per la prima volta l’esperienza dell’amore.

Il mio desiderio principale era proprio quello di raccontare una storia d’amore. Con due aspirazioni apparentemente contraddittorie sottostanti alla sceneggiatura. Volevo mostrare passo dopo passo come sia innamorarsi, il puro piacere di innamorarsi e di vivere il presente. Per questo aspetto la regia è incentrata sulla confusione, l’esitazione e lo scambio romantico. Ma volevo allo stesso tempo scrivere del ricordo di una storia d’amore, di come resta dentro di noi con tutta la sua forza. Per questo aspetto la regia deve lavorare sulla rievocazione, e il film diventa il ricordo di quell’amore. Questo film è pensato come un’esperienza sia del piacere di una passione presente sia del piacere di una storia di emancipazione per i personaggi e per il pubblico. Questa duplice temporalità ci permette di vivere le emozioni e di riflettere su di esse. Inoltre volevo raccontare una love story basata sull’uguaglianza. Anche durante il casting, Christel Baras ed io ci siamo preoccupate di trovare un equilibrio e di raccontare una storia d’amore che non fosse fondata sulle gerarchie, sui rapporti di forza e di seduzione esistenti prima del momento dell’incontro. Dare la sensazione di un dialogo che nasce inatteso e che ci sorprende. L’intero film è guidato da questo principio nelle relazioni tra i personaggi. L’amicizia con Sophie, la domestica, che va oltre i rapporti di classe. Le discussioni aperte con la Contessa, personaggio che ha a sua volta desideri propri e proprie aspirazioni. Volevo che tra i personaggi vi fossero solidarietà e onestà.

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Come hai affrontato la questione della pittura?

Prima di tutto ho deciso di inventare una pittrice anziché scegliere una figura ispiratrice realmente vissuta. Mi è sembrato giusto, in relazione alla vita di queste donne che hanno conosciuto solo il presente: inventarne una è stato un modo per pensare a tutte loro. La nostra consulente, una sociologa dell’arte specializzata in pittori di quell’epoca, dopo aver letto la sceneggiatura, ci ha aiutati a creare una Marianne che fosse convincente come pittrice nel 1770. Volevo mostrare il personaggio al lavoro, ad ogni stadio. Per cui è stato necessario inventare anche i suoi quadri. Volevo lavorare con un’artista e non con dei copisti. Volevo che quell’artista avesse la stessa età della protagonista. Una pittrice trentenne contemporanea. Mi sono imbattuta nel lavoro di Hélène Delmaire durante le mie ricerche sulle donne pittrici, comprese quelle di oggi, in particolare cercando su Instagram. Hélène ha una formazione classica in pittura ad olio ed ha una buona esperienza nelle tecniche del XIX° secolo. Il rapporto con l’arte nel film è vitale proprio perché i personaggi sono isolati. Prima di tutto dal mondo, poi uno dall’altro. Il film dice anche che l’arte, la letteratura, la musica e il cinema alcune volte ci permettono di esprimere a pieno le nostre emozioni.

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