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Sigourney Weaver e quel mostro chiamato Alien

Oggi è il 70° compleanno di Sigourney Weaver, una delle attrici simbolo del cinema anni ’80 che presto vedremo sui grandi schermi nel sequel di Avatar. Interprete vigorosa, atletica ed attraente, oggi la festeggiamo parlandovi della pellicola che la lanciò, ovverò l’indimenticabile Alien di Ridley Scott (il primo grande successo del regista) uscito 40 anni fa: correva l’anno 1979.

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Alien racconta le vicende della navicella spaziale Nostromo, in viaggio nello spazio per una missione di salvataggio dopo aver ricevuto una chiamata di soccorso. Su uno strano pianeta l’equipaggio trova un enorme campo di “uova” in incubazione e quando Kane (William Hurt) si china a esaminarne uno, questo gli esplode in pieno viso e un essere pieno di tentacoli si incolla all’esterno del suo casco. L’uomo viene riportato immediatamente sulla navicella e confinato in infermeria. Dopo giorni passati in quarantena con la creatura grigia simile a una piovra attaccata al volto, all’improvviso Kane pare guarito; lo strano essere è morto.

Ma di lì a poco – in una scena che secondo il critico Murray Pomerance “è seconda solo a quella di Psyco per lo shock che provoca” – l’uomo si sente male durante il pranzo. Sembra avere problemi di digestione e cerca di vomitare sul tavolo; tutti arretrano. Poi si ritrova sdraiato sulla schiena, la maglietta bianca inizia a pulsare e il volto è straziato da una terribile agonia. Di colpo il torace esplode e una creatura umidiccia e simile a un verme dai denti appuntiti, che si è sviluppata nel suo petto, solleva l’orrenda testa, esamina il territorio e salta fuori con un grido per poi correre a nascondersi. Per Kane non c’è più niente da fare, ma dov’è finito l’alieno? Presto riapparirà, e non sarà più così piccolo né così indifeso.

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Alien è il remake non dichiarato di una modesta pellicola degli anni Cinquanta (Il Mostro dell’Astronave di Edward L. Cahn) ma, in linea con i nuovi interessi e commistioni del genere, si muove tra horror e metafisica. È la storia di un’intrusione, quella di un mostro killer su un’astronave da trasporto (siamo già nel dopo 2001 e Guerre Stellari e i cieli sono solcati dalle navicelle), un killer che è massa vivente e informe: che appare, scompare, muta. Come ha scritto Gianni Volpi, quello di Alien “è un viaggio claustrofobico nella paura, estraneo all’epica della space opera”. Gli ambienti sono lucenti di tecnologia nelle sale comandi, ma sono immersi in un’oscurità arcaica negli apparati.

Quei tubi, quei meandri finiscono per essere gli spazi chiusi di un Labirinto senza uscite, i luoghi di una storia perversa, abitata da un mostro intelligente ma immune ai sentimenti, e la cui apparenza vischiosa, organica è sfruttata nei suoi dati fobici e repulsivi da una schiera di artisti visivi, fra cui H. R. Giger e Moebius. Continua ancora Volpi: “mostro parassita mortale dei corpi umani, pregnante di allusioni sessuali, esso appare, più che mai, un prodotto dei nostri incubi e dalle nostre fantasie primigenie”. Caso rarissimo, in un genere tutto di eroi maschi, a sconfiggere il mostro è una donna (Sigourney Weaver).

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Per molti versi Alien costituì il modello per gli effetti più raccapriccianti dei film di fantascienza, dopo una lunga tradizione in cui gli alieni erano tipicamente rappresentati come umanoidi e le loro intenzioni più terribili erano evidenti ben prima che passassero all’azione. Ora invece i cattivi potevano essere creature viscide dai denti aguzzi e al tempo stesso intelligenti e l’azione più rapida di un lampo. In qualche modo fu un cambio epocale, che porta la firma di Ridley Scott.

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