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Torna restaurata al cinema la superba Manhattan di Woody Allen

La Cineteca di Bologna, nell’ambito del progetto Il Cinema Ritrovato, riporta da oggi in sala lo straordinario Manhattan di Woody Allen, pellicola scritta, diretta e interpretata dal Genio nel 1979. Una dichiarazione d’amore verso il cinema e verso la sua città, New York.


Sinfonia postmoderna d’una grande città, ricamo amoroso di citazioni affidate ad un bianco e nero di bellezza vertiginosa, mentre New York s’allunga nel panoramico: per paradosso, solo uno schermo grandissimo rende piena giustizia a questa storia di fragili amori consumati tra ristoranti alla moda, diner confidenziali, appartamenti in penombra, sale di museo o di planetarium, ma pronta ad aprirsi sulle meraviglie dello skyline, di Central Park durante un temporale estivo, di una Quinta Avenue filmata a passo di corsa e in un crescendo della Rapsodia in Blu che sfuma infine sulle note malinconiche di But Not For Me.

Sono trenta-quarantenni, sono intellettuali, si innamorano e si disamorano, vivono trasportati dalla musica di Gershwin e trafitti dall’ironia amarognola delle battute di Woody Allen-Ike Davis, coscienza tragicomica d’un mondo: “Tutta questa gente di Manhattan che parla, si agita e si crea problemi inesistenti per non pensare ai veri problemi universali”. Film chiave nella filmografia di Allen, film di approfondimento e maturazione, trattato con dispetto da chi avrebbe voluto vedere in Allen un lunatico fool a vita, Manhattan è film dal fascino visivo struggente, e ha restituito come pochi la nevrotica dolcezza del vivere in un certo luogo del mondo occidentale, in una certa stagione (la fine dei Settanta) che ci appare ormai lontana.

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Come scrisse Emanuela Martini (Cineforum, 1980), Manhattan è “un film dove la dinamica che regola il gioco delle coppie è indissolubilmente legata allo stato ‘culturale’ dei protagonisti, dove l’impotenza creativa che investe la vita pubblica dei personaggi si riflette puntualmente sulla loro vita privata. Sarebbe riduttivo infatti considerare Manhattan un semplice film d’amore (o di amori), come sarebbe riduttivo considerarlo solo una caustica presa in giro delle idiosincrasie e delle mistificazioni dell’intellighentia new-yorkese. Tutto organizzato sui ritmi e i tratti della sophisticated comedy anni Trenta (ma senza dimenticare i tempi meditativi e monologanti tipici di Allen), punteggiato di battute che a questa più o meno esplicitamente rimandano”.

Manhattan è in realtà un film amaramente rassegnato; è la calibrata, feroce e autocritica descrizione dello stato esistenziale e dello ‘stile’ di vita che caratterizza una generazione insoddisfatta, la quale, viva essa nel cuore o alla periferia dell’impero, si caratterizza per la generalizzata incapacità a programmare secondo un “senso” definito la propria vita. Non è un caso, infatti, che il concetto che ricorre più frequentemente nel film sia quello del ‘mettere ordine nella propria vita‘, volontaristico, programmatico e sempre puntualmente disatteso, non solo per pigrizia e malafede, ma soprattutto per l’impossibilità a tradurre in azione la confusione e le tensioni interiori. Il gioco delle coppie così viene semplicemente a costituire la traccia narrativa portante del racconto interiore di tante solitudini ingarbugliate e tra loro perfettamente simili, dove nevrosi, ansie creative non realizzate, fraintendimenti etici, incomunicabilità, frustrazioni, mass-media, psicanalisi, miti culturali la fanno da padroni”.

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Lo spazio della storia è New York, la città di Woody Allen. I critici americani gridano unanimemente al capolavoro definendo Woody come il “fidanzato di New York” e Manhattan “l’unico vero grande film americano degli anni Settanta” (“The Village Voice”). La città non è solo la capitale culturale dell’Impero in decadenza, ma soprattutto la ‘toponomastica ideale’ dei valori di un Woody Allen in ascesa. Manhattanresuscita il cinema classico americano degli anni Quaranta in b/n – scrissero Elio Girlanda e Annamaria Tella (Woody Allen, Il Castoro, Milano 1995) – quando la sophisticated comedy ritrae la borghesia immersa nei giochi della seduzione e del successo”.

Nel 1979, su L’Espresso, così scriveva Alberto Moravia: “Manhattan è una mano che si sporge tra due fiumi, l’Hudson River e l’East River. Le ‘avenues’ sono le dita di questa mano, le ‘streets’ tagliano le dita orizzontalmente, come le strisce di un guanto da sci. Broadway infine serpeggia bizzarra e irregolare attraverso la mano. Sulla quale sta tutto ciò che conta a New York, che fa di New York la città che si chiama New York. Perché è bella Manhattan cioè New York? Perché è l’espressione di un momento storico dello spirito umano una città-persona in cui non c’è niente da salvare, una città che ha avuto un’infanzia, un’adolescenza, una giovinezza, una maturità e oggi forse ha una sua strana, potente vecchiaia. A questa città-persona, Woody Allen, in Manhattan, dedica una specie di inno, un po’ paragonabile a quello dedicato da Baudelaire al suo “sombre Paris“.

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Manhattan è un film pieno, quindi, dei temi che Allen è andato sviluppando con sempre maggior precisione lungo l’arco di tutto il suo lavoro di sceneggiatore, comico e regista, temi che trovano qui un’espressione particolarmente puntuale, una sintesi interna esemplarmente armonica. Uno dei suoi capolavori, forse il suo capolavoro, ancora, esageratamente superbo.

“I miei film descrivono la New York dei miei sogni, dei miei desideri, a volte dei miei ricordi”.

Woody Allen

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