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Torna restaurato PlayTime, l’opera monumentale di Jacques Tati

Dopo Mon Oncle, torna oggi al cinema in versione restaurata PlayTime, pellicola scritta, diretta e interpretata da Jacques Tati nel 1967. Vincitore a Parigi del Grand Prix de l’Académie du Cinéma nel 1968, PlayTime torna oggi in sala nella versione originale completa voluta da Tati e poi successivamente ridotta per ragioni commerciali. Nella pellicola ritroviamo un sempre più spaesato Monsieur Hulot insieme a un gruppo di turisti americani nella moderna e tecnologica Parigi.


Mentre vaga per i quartieri più avveniristici di Parigi nell’inutile tentativo di rintracciare un impiegato, l’allampanato e compassato Monsieur Hulot (Jacques Tati) si smarrisce in una giungla di architetture moderne, palazzi di vetro e gadget tecnologici, rimanendo “impigliato” in un gruppo di turisti statunitensi fino a rendersi responsabile della distruzione di un ristorante-night appena inaugurato. Alla sua terza apparizione lo stralunato Monsieur Hulot demolisce con nonchalance ogni parvenza logica dei meccanismi del mondo moderno.

Considerata l’opera più imponente di Jacques Tati, PlayTime fu girata in 70 mm nel set monumentale di Tativille. Lo stesso regista dichiarò: “Sarà per sempre il mio film definitivo a causa delle dimensioni della scenografia, rispetto alle persone”.

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Vi presentiamo il film nei punti chiave.

Architettura – Ispirandosi ai palazzi in vetro e acciaio costruiti negli anni ’60 e, in particolare, al progetto della Défense nella zona ovest di Parigi, dove, al momento dell’inizio delle riprese, si ergeva una sola torre, PlayTime esamina l’uniformazione dell’architettura. “A che serve viaggiare – chiede implicitamente Tatise tutte le capitali del mondo ormai si assomigliano? Se all’estero si vedono le stesse cose?”.

Caldo / Freddo – I contrasti grafici e termici gli permettono di mettere in scena le condizioni di possibilità di una convivialità che la società moderna, secondo lui, tende spesso a dimenticare. Nessuna sorpresa, se natura e colore sono ridotti al minimo indispensabile, relegati all’angolo di un marciapiede, associati a un’anziana fioraia uscita da Per le vie di Parigi di René Clair.

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Illusione – È soprattutto la prospettiva a essere fonte d’illusione della presenza di un altro.
È un’illusione acustica, per Hulot, seduto, senza visibilità, alla fine del corridoio interminabile percorso da Giffard; poi illusione ottica nella sala dei riflessi, dove il vetro onnipresente proietta in lontananza, a fianco dei corpi fotografati di segretarie unidimensionali, l’immagine moltiplicata dell’inafferrabile Giffard.

Intruso – Hulot fa necessariamente la figura dell’intruso. Lo ricevono rinchiudendolo in una sala d’attesa. È messo sotto sorveglianza in una prigione di vetro dove la trasparenza è solo un’illusione, poiché non impedisce affatto di passare inosservati.

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Reificazione dell’uomo – Nella prima parte del film, i soggetti fotografati posti sullo sfondo simboleggiano anch’essi questa minaccia di reificazione dell’uomo, poiché i corpi sono soggetti alla ripetizione e all’uniformazione, proprio come le scenografie. Il regista-mimo rappresenta volentieri gli uomini come degli automi. La meccanizzazione dei loro gesti e della loro andatura non è sconnessa da questa architettura che, per Tati, era concepita per rimanere sull’attenti.

Struttura / MovimentoQuando dicono che PlayTime è privo di struttura – afferma Tatimi fanno ridere. È un po’ come un balletto, all’inizio, i movimenti dei personaggi seguono sempre l’architettura. Non fanno mai la minima curva. Vanno e vengono da una linea retta all’altra. Più il film avanza più la gente balla e inizia a girare, quasi in tondo”.

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Tecnica e Libertà (dello spettatore) – Se Tati ricorre al 70mm invece che al 35mm, se utilizza quasi esclusivamente dei totali, se rifiuta di costruire la storia su uno schema classico, fatto di tensioni, crisi e nuovi sviluppi o basato sull’identificazione con i personaggi, è anche per rispettare pienamente la libertà degli spettatori. Sono liberi di trarre piacere dove pare loro più opportuno poiché, come scriveva Henri Matisse, “ci sono sempre fiori per chi li vuole vedere“. La principale ambizione di Tati è insegnarci nel tempo di un’opera non è seguita da titoli di coda, a percepire la vita stessa un po’ più di sorrisi e di poesia.

“PlayTime non assomiglia a nulla che già esista al cinema. È un film che viene da un altro pianeta, dove i film si girano in maniera diversa. Forse PlayTime è l’Europa del 1968 filmata dal primo cineasta marziano: lui vede quello che noi non vediamo più, sente quello che noi non sentiamo più, gira come noi non facciamo”.

François Truffaut


EXTRA – PlayTime, note di restauro

Il restauro dell’immagine è stato possibile grazie alla collaborazione di due laboratori: il francese Arane-Gulliver e L’Immagine Ritrovata di Bologna. A parte il restauro tecnico, il film è stato rielaborato anche a un livello artistico. Aggiungendo elementi del montaggio originali riscoperti solo recentemente.

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Quando PlayTime ebbe la sua seconda uscita nel 1978, Tati, che nel frattempo era caduto in una pressante crisi economica, fu obbligato a fare numerosi tagli per un maggior successo commerciale, tagli che ridussero drasticamente la durata del film. Ad oggi questa è l’unica versione rimasta di PlayTime e va detto che fu anche l’unica di cui il regista non si sentì mai soddisfatto.

Il recupero della versione integrale, l’unica approvata veramente da Jacques Tati, è stata possibile grazie agli scarti che sono stati conservati fino ad ora. Anche l’audio utilizzato risale alla versione del 1978, l’ultimo in ordine di tempo, rivisto da Tati. Le parti tagliate, nella riedizione del 1978, sono state reintegrate con i materiali originali del 1968.

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La colonna sonora del filmin puro stile Tati, obbedisce a una sua propria logica, molto distante dalle regole del sonoro cinematografico. Il dialogo è raramente il centro d’attenzione e frequentemente si confonde o si sovrappone ad altri suoni. Tanto quanto la scenografia, il suono delle macchine, le luci al neon e l’ambiente in generale, contribuiscono a creare la città dentro e fuori lo schermo, senza preoccupazione di realismo e creando un universo unico. Molte gag sono basate sulla sonorità e possono durare anche alcuni minuti, evidenziando come il sonoro sia un aspetto primario fin dalla scrittura del film.

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