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Una Luna Chiamata Europa, il volo di Kornél Mundruczó sul tema rifugiati

Presentato in Concorso al Festival di Cannes, il 12 luglio arriva al cinema Una Luna Chiamata Europa, l’ispirato film diretto da Kornél Mundruczó incentrato sul tema dei rifugiati. Uno di loro, scoprirà di avere un superpotere.


Aryan (Zsombor Jéger) viene ferito mentre cerca di attraversare illegalmente la frontiera ungherese. Sopravvissuto, il ragazzo scopre che ha ricevuto in dono la capacità di levitare. Rinchiuso in un campo di rifugiati, riesce a scappare con l’aiuto del dottor Stern (Merab Ninidze) che vuole sfruttarne lo straordinario potere.

Kornél Mundruczó ha rilasciato un’intervista che vi proponiamo qui sotto.

Che cosa significa il titolo del film?

Una delle lune del pianeta Giove, scoperte da Galileo, si chiama Europa. Per me era importante considerare questo film come una storia europea, radicata in un’Europa in crisi, inclusa l’Ungheria. Allo stesso tempo, cercavo di dargli un’aria da fantascienza contemporanea. Sono appassionato di questo genere fin dall’infanzia e penso che ciò si percepisca in certi miei film precedenti, come White God – Sinfonia per Hagen o Tender Son – The Frankenstein Project. Abbiamo inoltre lavorato attorno all’idea di straniero domandandoci chi sia il vero straniero. È una questione di punto di vista. Giove è sufficientemente lontano da noi perché ci si possa porre nuovi interrogativi sulla fede, i miracoli, la diversità.

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Si tratta di un film futuristico oppure si svolge nel presente?

Sfortunatamente, non si tratta più di futuro. In origine il film avrebbe dovuto essere ambientato nel futuro ma, mentre stavamo cercando i finanziamenti, tutto è diventato reale. Non volevamo fare un film sui rifugiati, bensì utilizzare l’attuale crisi come contesto per ripensare i miracoli. Abbiamo discusso a lungo per capire se il soggetto dei rifugiati non fosse diventato troppo attuale, siccome tendo a rifuggire da narrazioni ideologiche che si inscrivono nell’attualità bruciante. Credo piuttosto nell’idea di un’arte classica, che agisce come l’acqua sul cemento: consumandolo e sgretolandolo. Ai miei occhi, l’arte fondata su fatti reali e opinioni politiche è meno interessante, per cui, quando siamo tornati a lavorare alla sceneggiatura, abbiamo cercato di prendere un po’ di distanza tanto a livello della narrazione quanto del linguaggio del film.

Si può dire che la capacità di volare sia all’origine di questo progetto?

Uno dei miei libri preferiti, da bambino, era Ariel di Alexander Belyaev, romanzo su un bambino in grado di volare. Immaginate un essere dotato di poteri sovrumani, e i contrasti e le tensioni fantastiche che questa condizione può generare attorno a lui. Con il passare del tempo, mi pongo sempre più domande a proposito della fede. In un certo senso ho sempre pensato che esista una fede più grande, totale e universale, al di là di quella relativa dettata da una cultura e da un determinato periodo; una fede che possa avere un impatto su tutti, specialmente in un’epoca in cui sembriamo voler regolare i nostri conti con la religione tradizionale, o con Dio. Invece, siamo classificati in base ai soldi e al successo, secondo l’onnipresente Dio del populismo e dell’immediata soddisfazione. E, naturalmente, mettere in primo piano un individuo capace di volare solleva delle domande a proposito di ciò in cui crediamo. Inoltre, solleva domande su ciò che lo spettatore è disposto a credere. L’incontro con un miracolo richiede l’implicazione attiva dello spettatore, obiettivo che cerco sempre di raggiungere. Certo, il film parla dei rifugiati, ma è anche una ricerca di Dio, nel senso che dobbiamo riconoscere che a volte si incontrano cose assolute o misteriose. Il personaggio di Aryan ne è la materializzazione: una figura cristologica nel corpo di un rifugiato che potrebbe essere un angelo. I miracoli non si manifestano mai dove li si attende, e forse non li utilizziamo mai come si dovrebbe.

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Come hanno influenzato il film i tuoi sentimenti verso i rifugiati?

Ho cominciato a rendermi conto della questione dei rifugiati quando, nell’ambito di una vasta installazione teatrale, ho messo in scena Viaggio d’Inverno di Franz Schubert. L’Europa era agli albori della crisi. Durante il lavoro di preparazione e la costruzione delle scenografie ci siamo recati in un campo per rifugiati a Bicske, in Ungheria, per una o due settimane. Quello che ho visto lì mi ha sconvolto. Ho avuto l’impressione che essere straniero, diverso, fosse uno stato d’essere. C’era una strana forma di santità in quelle persone perché si trovavano in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio. L’immagine o l’allegoria della privazione è molto vicina alla liturgia cristiana, che conosco bene perché mi è stata inculcata nell’infanzia. Non hai né un passato né un futuro, c’è solo il presente, ma anch’esso è incerto. Non sai neanche se sei ancora te stesso, se sei la persona che eri quando sei partito, o se sei diventato qualcun altro durante il viaggio. Non si può essere testimoni di questo senza sentirsi solidali. Sarebbe disumano.

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