(foto di © Philippe Antonello)

Alberto Rondalli rilegge il Manoscritto di Jan Potocki con Agadah

(foto di © Philippe Antonello)

Domani uscirà al cinema Agadah, il film diretto da Alberto Rondalli liberamente tratto dal celebre Manoscritto Trovato a Saragozza di Jan Potocki, uno dei grandi classici della letteratura polacca dell’’800, un testo carico di simbolismi in cui si ritrovano tutti gli elementi del romanticismo. Protagonista un cast internazionale: Nahuel Perez Biscayart, Pilar Lopez De Ayala, Jordi Mollà, Caterina Murino, Marco Foschi, Ivan Franek, Valentina Cervi, Alessandro Haber, Flavio Bucci, Umberto Orsini, Alessio Boni e la giovane Federica Rosellini.


Siamo nel 1815, il conte Potoski (Jordi Mollà) sta lavorando al suo romanzo nell’elegante dimora in cui vive. Maggio 1734, Alfonso di van Worden (Nahuel Pérez Biscayart), giovane ufficiale Vallone al servizio di Re Carlo, ha ricevuto l’ordine di raggiungere il suo reggimento a Napoli nel più breve tempo possibile. Nonostante Lopez, suo fedele servitore, cerchi di dissuaderlo dall’attraversare l’altopiano delle Murgie, perché infestato da spettri e demoni inquietanti, si mette ugualmente in cammino. In un intreccio fantastico, tra sogno e realtà, che ricorda il Decamerone e le Mille e una Notte, Alfonso compirà un percorso iniziatico, durante dieci lunghe giornate, tra allucinazioni e magia in caverne misteriose, locande malfamate, amori scabrosi e apparizioni diaboliche.

Ambientato all’indomani della Battaglia di Bitonto, che portò il Regno di Napoli sotto il dominio di Carlo di Borbone, il film, in un crescendo epico e maestoso, intreccia, tra sogno e realtà, il destino di due uomini uniti in modo indissolubile attraverso storie tra loro concatenate in una realtà popolata da briganti, zingari, forche, cabalisti e fantasmi. Alfonso non avrà mai certezza se la sua esperienza sia stata reale o solo frutto dell’immaginazione.

Jordi Mollà (foto di © Maurizio Buscarino)

Jordi Mollà (foto di © Maurizio Buscarino)

Liberamente tratto dal celebre Manoscritto Trovato a Saragozza di Jan Potocki, il film è una rilettura di uno dei grandi classici della letteratura europea. Il romanzo fu scritto in francese all’inizio del 1800 e ha avuto tra le peripezie più singolari che la storia della letteratura ricordi. Il Manoscritto è una serie di storie di fantasmi, intrecciate l’una nell’altra come scatole cinesi: «un decamerone nero», suggestivo e grandioso fatto di simbolismi a volte indecifrabili in cui si ritrovano tutti gli elementi del romanticismo nero. Un classico della letteratura, un’opera titanica e a tratti inafferrabile che fu portata sullo schermo solo una volta dal polacco Wojciech Jerzy Has nel 1964 e che tanto affascinò Luis Buñuel.

Passando al film, vi proponiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Alberto Rondalli.

Cosa ti ha affascinato di questo romanzo?

Il fatto che il Manoscritto sia un testo definitivo, una sorta di summa totale di tentativi da parte di uno scrittore di raccontare tutto il raccontabile compiendo così il massimo sforzo che una mente umana possa fare. Quando ho letto il romanzo, mi sono lasciato completamente catturare dalla forza della narrazione, dalla capacità di affabulare e di essere affabulato, e mi sono reso conto che il racconto, come sosteneva lo scrittore Pietro Citati nel suo libro Il Male assoluto, è l’unica cosa che può sopravvivere al caos della storia. La narrazione ci dà infatti l’illusione di mettere ordine agli eventi dell’esistenza e di dare loro un senso, ed è per questo che è l’attività più umana e necessaria che ha l’essere umano. Senza saremmo disperati, proprio come Potocki o il suo doppio, il personaggio di Diego Harvas: entrambi infatti hanno scelto il suicidio di fronte al fallimento del loro tentativo di comprendere e raccontare il mondo. In questa necessità della narrazione, risiede per me tutta la modernità de Il Manoscritto.

Caterina Murino (foto di © Maurizio Buscarino)

Caterina Murino (foto di © Maurizio Buscarino)

Perché hai scelto di intitolare il tuo film Agadah?

Un film non può mai essere l’esatta trasposizione di un’opera letteraria. C’è sempre un piccolo o grande tradimento nel passaggio, reso inevitabile dall’irriducibile diversità dei mezzi espressivi. E questo è ancor più vero per un’opera infinita come Il Manoscritto. Ho deciso così di denunciare subito questo tradimento, a partire dal titolo: Agadah, termine cabalistico che si può tradurre con “narrare”. A sua volta l’etimologia della parola narrare è “far conoscere raccontando” che, per me ripeto, è il senso più profondo del film.

Nel 1964 il regista polacco Wojciech Has ha fatto una trasposizione cinematografica de Il Manoscritto. Hai preso le distanze dal suo film o la sua opera ti ha ispirato?

Diversamente da Has ho scelto di raccontare alcuni episodi racchiusi in dieci giornate, mentre Has ha scelto le cosiddette “storie spagnole”, che sono molto divertenti e picaresche, ma del tutto diverse dalle mie. Ci accomuna solo la struttura del viaggio di Alfonso van Worden. Il mio Alfonso è un adolescente: Potocki lo descrive, “senza un pelo di barba”; l’Alfonso di Has è invece un uomo adulto, e questo a mio parere toglie al personaggio l’aspetto del viaggio iniziatico del giovane uomo. Ad ogni modo ho visto la pellicola di Has più volte e l’ho anche citata in Agadah: l’inquadratura delle mani congiunte degli scheletri del padre e della madre di Alfonso quando si sposano sono il mio omaggio a questo regista.

Valentina Cervi (foto di © Maurizio Buscarino)

Valentina Cervi (foto di © Maurizio Buscarino)

L’edizione integrale del Manoscritto è suddivisa in 66 giornate e conta 700 pagine e un centinaio di storie. In che modo hai selezionato le sedici storie di Agadah?

Il Manoscritto è un romanzo su cui un regista potrebbe fare film tutta la vita senza riuscire a esaurirne tutte le storie. Ho scelto di raccontare la storia portante e poi quei racconti che mi sembravano spiegassero meglio sia il personaggio di Alfonso sia lo stesso Potocki, ovvero le vicende legate a Diego Hervas e a suo figlio, anche se l’autore è presente in ogni storia e, in trasparenza, è in tutti i suoi personaggi.

Il film ti è costato un grande lavoro di documentazione storica?

Sì ma in quindici anni ho avuto tutto il tempo di fare un lavoro accurato. Con la costumista e lo scenografo ho cercato di ricostruire in maniera quanto più realistica gli ambienti e i costumi. Avevo disegnato come sempre tutte le scene, ma questa volta mi sono dovuto anche adattare alle situazioni che si sono venute a creare, perché tante storie e diverse location hanno comportato anche molte variazioni.

A proposito di location, come mai hai deciso di girare in Italia?

Il Manoscritto è ambientato nella Serra Morena, ma la storia poteva essere benissimo adattata in Sicilia o in Puglia, perché sono terre che hanno subìto la dominazione borbonica e sono state anche loro attraversate da banditi, zingari, scuole cabalistiche. Alla fine abbiamo optato per la Puglia e la scelta è stata perfetta, perché alcune sue zone desertiche richiamano molto quelle della Spagna.

Nahuel Perez Biscayart (foto di © Maurizio Buscarino)

Nahuel Perez Biscayart (foto di © Maurizio Buscarino)

Per ricreare gli ambienti del film hai avuto dei riferimenti iconografici?

Sì. Ho lavorato nuovamente con il direttore della fotografia Claudio Collepiccolo proprio perché abbiamo un’intesa consolidata sul tipo di luce da usare e sui riferimenti pittorici da adottare. L’immagine dell’Oriente nel mio film non vuole essere filologicamente orientale ma direi orientalista ed è stata dedotta proprio da tanti quadri del ‘700 e ‘800 di pittori che hanno visitato l’Oriente o semplicemente l’hanno immaginato attraverso i loro occhi di occidentali. Certi tagli di luce sono caravaggeschi, altri sono più vicini all’olandese Jan Vermeer. In alcuni casi abbiamo utilizzato l’illuminazione naturale delle candele, facendo riferimento a un pittore come Georges De La Tour, oltre naturalmente a Kubrick che in questo è stato un maestro. E ancora, nelle scene più leggere ci siamo ispirati ai quadri di Jean-Honoré Fragonard, per altre ancora abbiamo tratto ispirazione da Le tre età dell’uomo e la morte di Hans Baldung Grien. Ogni scena delle 16 storie di Agadah ha una suggestione pittorica.

E per gli scheletri, ti sei ispirato ad altri film?

No, mi hanno ispirato i lavori del fratello del pittore Fragonard, Honoré, e la sua serie di “scorticati”: cadaveri sezionati e imbalsamati in vere e proprie pose artistiche e finanche le mummie delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo. Per la loro realizzazione abbiamo utilizzato degli scheletri a grandezza naturale (di uso medico), che sono stati truccati da Matteo Arfanotti, un campione di body painting, digitalizzati e in seguito animati.

Pilar Lopez de Ayala (foto di © Philippe Antonello)

Pilar Lopez de Ayala (foto di © Philippe Antonello)

L’immagine orientalista dell’Oriente di Potocki sembra oggi molto ingenua. Qual è il tuo rapporto con il cinema arabo di oggi: lo vedi, hai dei registi di riferimento?

La visione orientalista dell’Oriente in Agadah è distante dalla realtà ed il film non ha alcun intento filologico. Ho viaggiato moltissimo nei paesi arabi, e tra i registi arabi amo, tra gli altri, il tunisino Nacer Khemir, che nei suoi film restituisce quell’atmosfera misteriosa e magica dell’Oriente.

Come pensi reagirà il pubblico?

Non lo so, ma spero che sia un pubblico semplicemente disposto a lasciarsi andare al racconto.

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