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Dramma rurale e thriller sociale, il Petit Paysan di Hurbert Charuel

A metà fra il dramma rurale ed il thriller sociale, giovedì 22 marzo uscirà al cinem Petit Paysan, il film d’esordio di Hurbert Charuel che – presentato a La Semaine de la Critique del Festival di Cannes – si è da poco aggiudicato 3 Premi César per il Miglior Attore (Swann Arlaud), per la Miglior Attrice Non Protagonista (Sara Giraudeau) e per la Miglior Opera Prima.


Giovane allevatore di vacche da latte, Pierre (Swann Arlaud) è legato anima e corpo alla sua terra. L’amore per i suoi animali rappresenta il pendolo della vita di Pierre, scandita dal rapporto conflittuale con la sorella (Sara Giraudeau), veterinaria incaricata al controllo sanitario della regione. Ma il futuro dell’azienda familiare è messo in pericolo quando un’epidemia vaccina (HDF – febbre emorragica dorsale) si diffonde in Francia, finendo per colpire una delle sue vacche. Pierre sarà trascinato in un vortice di colpe e speranze, spingendosi sino ai limiti estremi della legalità pur di salvare i suoi amati animali.

Vi presentiamo ora un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Hurbert Charuel.

Di che cosa parla Petit Paysan?

Petit Paysan parla della grande pressione che si vive in un’azienda agricola: si lavora sette giorni alla settimana, bisogna mungere le vacche due volte al giorno, tutto l’anno, tutta la tua vita. Il film tratta anche dei rapporti con i genitori che sono sempre fra i piedi, sul peso di quel patrimonio. I gesti sono sovra-ritualizzati. Si va a mungere come se si andasse a pregare, di mattina e alla sera. Essere un produttore di latte è una vocazione.

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Com’è nata l’idea del film?

La crisi della mucca pazza ha lasciato un’impressione indelebile in me. Ho un ricordo vivido di un servizio in tv sulla malattia. Nessuno capiva cosa stesse accadendo. Hanno ucciso tutti gli animali… Come Pierre, i fattori chiamano spesso il loro veterinario, hanno bisogno di essere rassicurati. E la mucca pazza era una malattia inusuale che i veterinari non sapevano gestire. Non sapevano come veniva contratta. Tutti stavano impazzendo. Era pura paranoia. Alla Fémis film school avevamo un compito di sceneggiatura, sotto la guida della sceneggiatrice americana Malia Scotch Marmo che mi disse: “hai qualcosa, devi solamente scriverla”. Dopo aver finito la scuola ho incontrato Stéphanie Bermann e Alexis Dulguerian della Domino Films che erano interessati alla sinossi. Dopo due anni e mezzo di scrittura è venuta fuori la sceneggiatura.

Diresti che Pierre sei tu?

Il personaggio reagisce e parla in modo diverso, ma ovviamente Pierre conduce la vita che avrei vissuto io se non avessi deciso di fare film. La sua connessione intima con gli animali e il rapporto con i genitori sono quelli che ho io. Il film è stato girato nella fattoria dei miei. Pierre possiede trenta vacche, proprio come i miei genitori. Mia madre ha davvero molto a cuore le sue vacche: se una di loro si ammala o richiede trattamenti speciali e costosi, lei non si tira indietro. Pierre le somiglia, ma è sempre una fattoria, la produzione di latte è migliore se tratti bene il bestiame. È una cosa ambivalente: vuoi davvero bene ai tuoi animali e allo stesso tempo li sfrutti.

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Che risultato volevi ottenere con la prima scena? Onirica e allo stesso tempo impressionante. Pierre sogna che I suoi animali sono in casa.

Imposta immediatamente il tono tutto in una volta: una scena stramba, singolare. Mostra che il film non sarà solo realistico, ma che si svolgerà anche attraverso la mente del protagonista. La scena mostra quanto Pierre sia davvero ossessionato: le sue vacche prendono tutto lo spazio, tutta la sua vita, giorno e notte. Racchiude il film stesso: la storia di qualcuno che si barrica in casa insieme ai propri animali. Si sente bene solo quando è con le sue vacche, tollera le persone, ma non è ciò che lo tiene in vita. Sarà il viaggio dell’intero film: Pierre dovrà imparare a farcela da solo, senza le sue vacche.

Cosa ci dici del vicino che è così orgoglioso del proprio robot?

Da un lato c’è la fattoria di Raymond, che è la riflessione di Pierre, solo cinquant’anni più grande. E dall’altro c’è una fattoria con un robot dove il benessere delle vacche è quasi automatico. Conosco una fattoria così, dove c’è solo una stazione radio 7 giorni su 7, 24 ore al giorno perché gli animali sono attratti dal suono. La radio è vicina al robot che le nutre e le munge. Gli animali saranno più felici, avranno maggiore autonomia ma l’obiettivo è sempre la produzione. Ben presto non ci saranno più fattorie gestite da uomini. Le vacche di Pierre hanno un nome, ben presto avranno solo dei numeri. Anche se il film sconfina nella fantasia, è stato pensato per rendere conto di questa evoluzione. Gli spettatori potranno pensare che Pierre venga contagiato dalla malattia, ma i sintomi sono piuttosto psicosomatici. I fattori vivono sotto stress. Ne conosco alcuni che prendono anti depressivi, altri che soffrono di psoriasi.

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È complicato girare un film con delle vacche?

Certo, soprattutto se ce ne sono trenta! Una vacca è come un bambino di cinque anni, tranne che pesa 900 chili e non va a scuola. Ci vogliono dieci minuti per mungere una vacca, quindi non potevamo tenerne una legata per venti minuti con quel caldo, non era bene per lei. Gli attori sono più tolleranti, ma loro sanno bene perché sono lì, mentre gli animali non lo hanno chiesto. Il rispetto per gli animali era di primaria importanza per me. C’erano cose che semplicemente non potevamo fare. Oltretutto, quando un animale è stressato puoi vederlo sullo schermo. Volevo raccontare la storia di un fattore che vive in armonia con i suoi animali.

Il modo in cui una delle vacche guarda Pierre quando si sveglia dice moltissimo.

È una sorta di miracolo. Eravamo a venti metri di distanza e in un’unica ripresa la vacca ha guardato Swann. Dio sa perché. È stata pura magia. La mandria è essa stessa un personaggio. Quando Pierre uccide una delle sue vacche lo spettatore deve avvertire che si tratta di un omicidio, che gli costa moltissimo, tanto quanto uccidere un essere umano. E mentre la storia va avanti anche le vacche devono diventare mostruose. Sono un grande peso sulle spalle di Pierre. Attraverso l’uso di un obiettivo a focale corta, le abbiamo rese ancora più mastodontiche e invasive sullo schermo.

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Qual è l’ultima vacca che Pierre guarda alla fine del film?

Soltanto una vacca che gli capita di incrociare. Se avessi fatto finire il film in quel momento, lo spettatore avrebbe pensato che Pierre si era impiccato. Il suicidio di un fattore è di per sé topico. Sapevo che non ci sarebbe stato un lieto fine. È una tragedia ma il personaggio non si uccide alla fine. È già una piccola vittoria. La lotta che Pierre mette in atto durante tutto il film gli permette di rimanere in piedi e non arrendersi.

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