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Giuseppe Battiston paga le proprie colpe in Dopo La Guerra

Sarà nelle sale da giovedì 3 maggio Dopo La Guerra, la sorprendente opera prima di Annarita Zambrano con Giuseppe Battiston, Barbora Boboulova, Fabrizio Ferracane, Elisabetta Piccolomini, Marilyne Canto, Charlotte Cétaire e Jean-Marc Barr. Si tratta di un affresco corale che tocca una delle pagine più buie della recente storia italiana, un film che non cerca di dare risposte ma pone piuttosto delle domande e invita alla riflessione sulle colpe e le violenze di un periodo storico recente che ha coinvolto più generazioni, e che rischia di incidere ancora sul nostro futuro.

Bologna, 2002. La protesta contro la riforma del lavoro esplode nelle università. L’assassinio di un giuslavorista riapre vecchie ferite politiche tra Italia e Francia. Marco (Giuseppe Battiston), ex-militante di sinistra, condannato per omicidio e rifugiato in Francia da 20 anni grazie alla Dottrina Mitterand che permetteva agli ex terroristi di trovare asilo oltre Alpe, è sospettato di essere il mandante dell’attentato. Quando il governo Italiano ne chiede l’estradizione, Marco decide di scappare con Viola (Charlotte Cètaire), sua figlia adolescente. La sua vita precipita, portando nel baratro anche quella della sua famiglia italiana, che, da un giorno all’altro, si (ri)trova costretta a pagare per le sue colpe passate.

Presentiamo ora qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dalla regista Annarita Zambrano.

Un film sul terrorismo o sul rapporto tra un padre e una figlia?

Dopo La Guerra è la storia intima di una famiglia divisa in due dalla colpa, è il racconto umano e personale di un padre e di una figlia, di una madre e di una sorella che hanno inciampato nella Storia e non riescono a vivere il loro presente perché avvelenato da un passato non risolto. Non è un film che ha la pretesa di spiegare, raccontare o definire il terrorismo italiano visto che, essendo nata nel ‘72 non ne ho fatto esperienza diretta, ma solo passiva. Quando Aldo Moro è stato ucciso avevo 6 anni. C’è chi crede che a sei anni non si capisce niente, ma vi assicuro che non così. Semplicemente vedi e capisci le cose ma non hai nessuna capacità decisionale. Di fatto gli altri stanno decidendo per te il tuo futuro. Quando tu avrai 20 anni per esempio, anche grazie alle conseguenze di quel rapimento e quella morte Silvio Berlusconi sarà eletto e resterà al potere 20 anni, ma tu questo ancora non lo sai. Già dalle scuole medie, sia io che i miei compagni consideravamo la violenza come una cosa quotidiana, normale. Tutti i giorni dalla televisione accesa in cucina si sentivano notizie sugli attentati: un terrorista di sinistra ucciso a Milano, uno di destra a Roma, e poi le bombe, alla stazione di Bologna, sui treni, nelle piazze. La violenza e gli attentati facevano parte della nostra vita, anche se non capivamo precisamente cosa stava succedendo. Poi, negli anni successivi, quando abbiamo capito, era troppo tardi. Tutto era stato già deciso, già combattuto, già sbagliato, già perso. Ho sempre pensato che la conseguenza di quegli anni bui hanno generato in Italia un completo rifiuto dell’impegno politico, il trionfo dell’edonismo e della corruzione sdoganata. In un certo senso tutti gli ideali, giusti e sbagliati che fossero, erano bruciati negli attentati terroristici. A noi restava la cenere, o l’eroina che aveva invaso l’Italia dei primi anni 80. È proprio da questo “sentimento del dopo” che nasce il film. Sono cosciente che quando si abborda un soggetto così difficile, come quello che resta di un periodo storico legato al dolore e alla sofferenza che ha provocato il terrorismo in Italia, i rischi sono sempre enormi. La paura della polemica, della legittimità – scusa e tu chi sei per fare questo film? – sono sempre presenti per chi si avventura su un terreno così spinoso. Ora, secondo me, è proprio quello che bisogna fare, anche rischiando di sbagliare perché no, in fondo è il solo modo di aprire una breccia, un dialogo, una discussione.

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La colpa è un nucleo tematico centrale nel film…

Il carico della colpa, dei delitti antichi che ricadono su chi resta e deve essere espiato è una costante non solo della cultura classica ma anche di quella cattolica che, anche non volendo, permea il sentire comune di molti italiani, me compresa. Volevo costruire questo film come una tragedia – intesa nel senso classico del termine – con al centro un quesito fondamentale sulla colpa, come passa da un paese all’altro, da una generazione all’altra, da un padre ai suoi figli. Nelle sue “Lettere luterane” Pasolini dice che uno dei temi più misteriosi del teatro classico è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Con lo stesso meccanismo, mostruoso e necessario, la mia generazione si è trovata prima a piangere i morti senza avere gli strumenti per capirne le ragioni profonde, poi a essere esasperata e a voler mettere da parte il passato comprandosi un futuro basato sulla
superficialità, sulla riuscita… una cosa che trovo profondamente ingiusta. Sono sempre stata perseguitata dall’idea della giustizia, da quello che è giusto o ingiusto, anche per la scrittura di questo film. Alla fine ho capito che dovevo aprire la riflessione e che Dopo la guerra non doveva essere un film sulla giustizia, ma sull’impossibilità del comprenderla, e sugli errori che gli uomini commettono quando sono accecati dalla smania di distinguere il giusto e l’ingiusto. Marco non si sente colpevole e non si pente (una posizione oltranzista che Barbara Balzerani ha ribadito pubblicamente davanti allo sgomento generale il giorno dell’anniversario della strage di via Fani) e in qualche modo il suo senso d’irresponsabilità ricade sulla sua famiglia di origine e sulla figlia.

Un passato che arriva con prepotenza nel presente, da qui un film sul dopo.

Dopo lo stimolo narrativo iniziale, i personaggi percorrono ognuno la propria traiettoria personale. La colpevolezza più grande di loro, che appartiene alla Storia, li segue nei loro percorsi, sui quali ovviamente incidono anche il libero arbitrio e le responsabilità individuali. Ho voluto rappresentare la passività della famiglia italiana, immersa in un’atmosfera ovattata e claustrofobica, in cui la complessità della realtà e del passato deve restare nell’oblio. L’esistenza di Anna è riempita dall’assenza criminale del fratello colpevole. Anna ha fatto di tutto per riscattarsi: ha sposato un giudice, si prende cura della madre, insegna letteratura cercando di contrastare la cultura della violenza. Ma questo non è sufficiente, nonostante cerchi di mantenere un profilo basso nella sua vita borghese e misurata, “L’Inferno” l’accompagna e le ricorda costantemente le colpe della sua famiglia. La paura della violenza, come se quest’ultima potesse tramandarsi sotto forma di malattia genetica, permea tutto il suo sguardo, anche quello su sua figlia di 6 anni.

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Ci può spiegare la scelta fatta per trattare il conflitto generazionale tra il padre e la figlia e le decisioni prese da entrambi?

La figura di Marco è molto invadente, sia fisicamente che moralmente. È un personaggio che invade tutto lo spazio e non lascia possibilità decisionali a chi lo circonda o lo ha circondato. È lui che decreta cosa deve fare Viola della sua vita – essere forte, intelligente, studiare da sola, rinunciare ai suoi amici, alla scuola, al diploma, alla pallavolo, ai bisogni futili come un paio di jeans – ed è lui ad aver deciso, o piuttosto provocato lo stato di frustrazione in cui vivono sua sorella e sua madre in Italia. Senza alcun giro di parole penso che in Italia Il Padre rappresenti ancora una figura maschile legata all’autorità, al potere, una figura affiancata da Dio, Stato e Papa, anche loro ineluttabilmente maschili. Da questa riflessione arrivo a sposare l’idea che il sacrificio del padre è necessaria! Nel film la possibilità di sacrificare il padre, attraverso un atto incosciente, coincide di fatto con l’occasione di iniziare un ciclo nuovo, seppure molto difficile. Si prospetta infatti davanti agli occhi di Viola un percorso fatto di colpa, di solitudine e di ostacoli ma di libertà individuale. Marco da parte sua, come tutti i personaggi tragici è auto referenziale e auto contradittorio. È ovvio che, nel profondo di se stesso, è cosciente della colpa che sta trasmettendo a sua figlia, ma fa finta di non vederla. Ha scelto di essere cieco per comodità, per arroganza, soprattutto per debolezza umana ma è anche per questo che soffre, se fosse incosciente della sua colpa non soffrirebbe. Marco in qualche modo, attraverso la sua cecità, non vedendo le esigenze della figlia e non volendo rinunciare a lei, prepara il suo stesso sacrificio. È colpevole del proprio destino e si avvia inesorabilmente verso la trasmissione della sua colpa alla figlia.

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