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Il mito e lo spirito di Craco nel Montedoro di Antonello Faretta

Esce oggi in sala Montedoro, il film scritto e diretto da Antonello Faretta, interpretato da Pia Marie Mann, Joe Capalbo, Caterina Pontrandolfo, Luciana Paolicelli, Domenico Brancale, Anna Di Dio, Mario Duca, Aurelio Donato Giordano e gli abitanti di Craco, in provincia di Matera, uno dei più famosi paesi fantasma italiani.

Una donna americana di mezza età scopre inaspettatamente le sue vere origini solo dopo la morte dei genitori. Profondamente scossa, e in preda ad una vera e propria crisi di identità, decide di mettersi in viaggio sperando di poter riabbracciare la madre naturale mai conosciuta. Si reca così in un piccolo e remoto paese dell’Italia del Sud, Montedoro. Al suo arrivo viene sorpresa da uno scenario apocalittico: il paese, adagiato su una maestosa collina, è completamente abbandonato e sembra non ci sia rimasto più nessuno.

Grazie all’incontro casuale di alcune persone misteriose, quelle che non hanno mai voluto abbandonare il paese, la protagonista compirà un affascinante e magico viaggio nel tempo e nella memoria ricongiungendosi con gli spettri di un passato sconosciuto ma che le appartiene, è parte della sua saga familiare e di quella di un’antica e misteriosa comunità ormai estinta che rivivrà per un’ultima volta.

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Vi proponiamo ora di seguito un estratto della conversazione tra Gabriele Anaclerio e il regista, Antonello Faretta.

Partiamo dal titolo, Montedoro. E’ un luogo reale o è frutto della tua immaginazione, ce lo vuoi spiegare?

Montedoro è un luogo reale ma per me anche ideale, mitico. Un destino, una meta intangibile in grado però di determinare un viaggio verso noi stessi e le nostre origini addentrandoci in un labirinto di conoscenza. Il titolo del film si riferisce a Craco, la “città fantasma” arroccata su di una collina di argilla in Basilicata. È qui che ho girato il film, con delle incursioni tra i Calanchi di Aliano e nella città dei Sassi, Matera. Alcuni abitanti del posto mi hanno raccontato che in origine Craco si chiamasse Montedoro, per la sua posizione collinare e per l’abbondanza delle messi che biondeggiano nei campi intorno durante l’estate. Di questa notizia non c’è traccia nei pochi libri esistenti sulla storia di Craco, forse qualche accenno, ma della luccicanza sì, quella l’ho vista con i miei occhi. Montedoro è un nome di confine tra il reale e il leggendario. Come quei nomi che appartengono ad antiche civiltà sommerse, scomparse misteriosamente.

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Montedoro è un film di viaggio: è al tempo stesso un attraversamento dei paesaggi fortemente connotati della Basilicata e un’esplorazione individuale e archetipica di luoghi rimossi che progressivamente “ritornano”.

La Basilicata è una terra che mi appartiene e io appartengo a lei non solo perché sono nato qui e qui lavoro ma molto di più. Questa regione è stata il mio Universo umano e creativo, una sorta di laboratorio nel quale frequentando la vita esercitavo inconsapevolmente la lingua con cui volevo confrontarmi con gli altri, con il mondo. È una terra ricca di contraddizioni dove gli scenari naturali e incontaminati la fanno ancora da padrone rispetto alla civilizzazione. Una terra antica e magica dove archetipi e modernità tentano di convivere. È, in definitiva, la mia patria e il viaggio di Montedoro è anche un po’ il mio viaggio in questa terra alla ricerca di me stesso. In quella bellissima carcassa, quasi un’opera di land art disegnata dalla Natura, nel vecchio paese adagiato sulla collina miracolosamente sopravvissuta alla grande frana del 1963 che ha reso l’antico bitato fragile, precario e inospitale, vedevo una suggestiva metafora della disgregazione che stavo vivendo sulla mia pelle e di quella più vasta del mio Paese, l’Italia.

Il mito orienta incessantemente il tuo racconto. Ti limiti a fornire alcune informazioni narrative fondamentali, utili allo spettatore per seguire la storia, ma poi sono soprattutto la terra e i rituali connessi a essa che dirigono il “flusso di coscienza” del film. L’opzione di una narrazione “libera” era già presente in sede di scrittura del film, oppure è stato nel momento delle riprese che si sono “allentate” le maglie del racconto?

È stato un mix delle due cose. Ho sempre cercato, in fase di scrittura, dei legami, delle sinapsi tra ciò che volevo mostrare ma senza rigidità. La natura del film, il materiale di cui disponevo e la mia indole mi orientavano sempre verso la flessibilità e l’ascolto. Dovevo perdermi per orientarmi nella notte del racconto e trovare dei punti di riferimento, una luce che ti orienta e ti dice anche di andare dove nasce tutto, all’origine. C’è qualcosa di sacro in tutto ciò, il cammino stesso che fai ha qualcosa di sacro. Un’immagine nel film a mio parere parla bene di questo: una scena notturna del paese visto da lontano dove misteriosamente si accende una luce sulla torre, il luogo che raggiungerà la protagonista del film. In quella luce io vedo Montedoro, vedo un’immagine misteriosa e sacra, vedo l’origine del mondo e delle creature viventi che hanno assunto le forma presente, vedo l’origine di Craco e il suo genius loci, vedo in definitiva il vero personaggio del film, il luogo. Ho sempre visto Craco come un personaggio, un organismo che è vivo e respira al pari dei suoi abitanti.

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Nel tuo film rivive una città disabitata, Montedoro. Ritieni che questo film possa avere una ricaduta positiva in termini di “riconquista” del territorio e delle sue tradizioni da parte degli abitanti e soprattutto delle amministrazioni locali? Magari è una provocazione, ma non sarà forse il caso di mostrarlo all’Unesco affinché la terra di Craco venga dichiarata Patrimonio dell’umanità?

Lo spero, anche se non sono molto ottimista a riguardo. Oggi siamo talmente narcotizzati da un presente intangibile che pochi riescono a voltarsi indietro e a guardare al passato, e ancor meno riescono a guardare al futuro. Il mio desiderio più intimo in realtà è che il film possa innescare un movimento interiore in chi lo guarderà, possa indurre a una riflessione sulla propria vita. Montedoro è un viaggio alla ricerca di un tempo perduto che è situato nel passato o forse nel futuro. Forse questo tempo non esiste ma la sola idea di ricercarlo ci aiuta a sentirci vivi. Viviamo in tempi di apocalisse collettiva dell’uomo, di svuotamento: è venuta a mancare la capacità di guardare dentro se stessi, al passato, a chi siamo, con uno slancio positivo verso il futuro. Craco è già un patrimonio dell’umanità dove ogni persona almeno una volta nella vita dovrebbe recarsi per chiedere all’oracolo di sé.

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