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Ritorno a L’Avana, il premiato film del francese Cantet sul sogno infranto della rivoluzione cubana

Palma d’oro al Festival di Cannes 2008 (La Classe), Laurent Cantet torna da stasera al cinema con Ritorno a l’Avana, una storia corale, scritta a quattro mani con il romanziere cubano Leonardo Padura. Il film è ha vinto le scorse Giornate degli Autori nella recente Mostra del Cinema di Venezia.


Sopra una terrazza che domina i tetti de L’Avana, baciati dalla luce calda del sole, cinque amici si ritrovano per festeggiare il ritorno a casa di uno di loro, Armando, che rientra sull’isola dopo 16 anni di esilio a Madrid. Dal tramonto all’alba i cinque ballano, ridono, bevono, ricordano la giovinezza trascorsa insieme e si raccontano le proprie vite. Emergono così, in poche ore, i sogni e le speranze di ieri e le disillusioni di oggi.

Riportiamo di seguito un estratto dell’intervista a Laurent Cantet realizzata da Philippe Mangeot.

Quanto deve questa sceneggiatura all’opera letteraria di Padura?

Il film è un concentrato di temi che Padura tratta di romanzo in romanzo. La difficoltà di esserci e l’impossibilità di essere altrove. L’incapacità di credere ancora e la stanchezza che prende il sopravvento. Tutti i suoi libri parlano di questa generazione perduta, la sua, quella nata tra il 1955 e il 1966 all’inizio della rivoluzione, che ha studiato con l’idea di poter partecipare effettivamente ad un’utopia in divenire ma che, nel momento in cui si è scontrata con le responsabilità, è stata colpita dalla fine del sostegno sovietico e dal periodo di crisi che ne è seguito. È quella generazione che ha vissuto in pieno il “periodo speciale” decretato da Fidel Castro a partire dal 1992: una decina di anni durante i quali ognuno ha conosciuto la fame e terribili privazioni, una vera e propria economia di guerra in tempo di pace, un inasprimento politico voluto per contenere l’emergere di frustrazioni e malumori. Per molti di loro il sogno si è interrotto in quel momento, insieme al dolore di dover mettere una croce su gran parte della loro vita. Altri hanno tentato di adottare una posizione critica, ma allora fu interpretata come tradimento. Altri ancora son partiti e vivono in esilio, in Spagna o negli Stati Uniti, il paese “nemico”.

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Come ha costruito i personaggi?

Al termine dei primi provini credevo di aver trovato Tania e Rafa ma gli altri dovevano ancora essere delineati. Tenevo molto al personaggio del piccolo dirigente corrotto, Eddy, che pensavo fosse il più patetico del film, perché lui stesso si detesta per essersi lasciato corrompere: nella mia testa, sarebbe stato il personaggio più fastidioso del gruppo, ma al tempo stesso quello che più si fa voler bene. Volevo inoltre che ci fosse la diversità fisica e di colore della pelle che caratterizza Cuba: Aldo, sua madre e suo figlio, i neri del film, suggeriscono l’immagine di un’altra classe, di un altro modo di essere e forse anche di un altro linguaggio. Sebbene la maggior parte dei cubani lo neghi, anche la loro società è ostacolata da separazioni economiche, culturali e razziali.

Come hanno reagito gli attori al fatto che lei non fosse cubano?

Andrebbe chiesto a loro. Ma spesso mi hanno detto che un cubano non avrebbe mai potuto fare questo film. Prima di tutto perché non avrebbe avuto l’autorizzazione e avrebbe trovato difficoltà per ottenere i finanziamenti. Ma anche perché la mia presenza nell’“anello di ferro”, quella di uno straniero, era indispensabile per far emergere cose che, tra cubani, si sanno e non si sente il bisogno di esplicitare. Questo tipo di distacco è molto importante per me. È un sentimento che provo tutte le volte che giro: una sorta di estraneità geografica, sociale o culturale mi dona un’intensità diversa da quella che potrei avere quando sono immerso in una situazione, totalmente concentrato su ciò che filmo.

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La libertà delle loro parole è collegata alla minore rigidità del regime?

Secondo Padura, il film è stato fatto nel momento in cui è stato possibile farlo. Perché siamo usciti dal “periodo speciale” e si è aperta un’epoca di maggiore libertà di parola e di pensiero. Abbiamo quindi ottenuto tutte le autorizzazioni ufficiali sulla base di una sceneggiatura che non ha avuto bisogno di essere edulcorata e anche i tecnici de l’ICAIC (Istituto Cubano delle Arti e dell’Industria Cinematografica) hanno lavorato sul set. Questa apertura è associata al bisogno che hanno i cubani di raccontarsi. Dal momento in cui abbiamo iniziato a parlare del film, gli attori non avevano che un’idea: il film esiste! Per loro era di fondamentale importanza che questo spazio di catarsi avesse luogo: che si potessero dire finalmente delle cose, che il cinema le avrebbe riflesse e trasmesse.

Parlerebbe di Ritorno a L’Avana come di un film su una “depressione collettiva”?

È piuttosto un film sulla rabbia. Tutti i personaggi hanno l’impressione di essere stati derubati della loro vita e forse anche loro hanno contribuito a farsela portare via, in un modo o nell’altro: che siano stati traditi o che si siano traditi. Negli anni ’70, avevano la sensazione di essere al centro di un cambiamento: stavano costruendo qualcosa che avrebbe potuto funzionare. Quando nel film si parla di questo, Rafa ironizza: “abbiamo scritto la storia, eravamo il fiore all’occhiello del mondo…”. Anche per i più critici di loro, quegli anni sono stati animati da un’energia e un senso di fiducia reciproca che gli ha permesso di superare anche i momenti più duri. Ed è proprio questa fiducia che un personaggio come Aldo cerca di tenere viva nonostante tutto, perché è nero e sa, che senza rivoluzione, avrebbe pulito le scarpe dei turisti americani. Mi emoziona profondamente quando dice: “Lasciatemi credere di crederci ancora…”. Gli altri non condividono questo punto di vista, loro provano solo rabbia.

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Il film dà l’impressione che non ci sia via di uscita: né di andare, né di restare, né di rientrare…

Prima di tutto dovremmo domandarci se questo sentimento lo proviamo tutti, a prescindere dal luogo in cui viviamo. Poi il film propone una via: uscire dalla paura. Amadeo racconta che la paura gli ha impedito di scrivere, gli ha impedito di tornare quando la sua compagna stava morendo, ha impedito a Rafa di dipingere. La loro vita è stata vincolata dalla paura che ha leso tutti i loro piani: la loro quotidianità, le loro relazioni, la loro creatività, gli amori. Credo che questa paura stia svanendo, come è svanita per Amadeo permettendogli adesso di tornare a Cuba.

Ritorno a L’Avana è senza dubbio il suo film più teatrale: molti dialoghi, una drammaturgia classica, unità di tempo e luogo. Ed è anche il suo film più diretto: quello in cui l’emozione è maggiormente esplicitata…

Generalmente sono piuttosto pudico: mi piace lavorare sul sottinteso. Questa volta mi sono sentito autorizzato a filmare le lacrime e gli scoppi d’ira. La scrittura di Padura mi ha invitato a farlo, gli attori mi hanno incoraggiato. Il film credo trasmetta quell’emozione che provo ogni volta che sento i cubani raccontare la loro storia.

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Non ha esitato a trasmettere degli insegnamenti sulla storia cubana…

Poche persone al mondo conoscono davvero la storia di Cuba e mi è sembrato importante ricordare alcuni avvenimenti, ma credo che queste lezioni non vadano a scapito dell’emozione. Abbiamo sempre voluto che i due livelli di lettura (storia cubana – storia generale) coesistessero dentro il film e si alimentassero a vicenda. Credo che ciascuno di noi possa ritrovare una parte di sé dentro queste storie: le speranze, le delusioni, le domande sul futuro del mondo in cui viviamo.

Allo stesso tempo, la teatralità, nella sua finzione, è controbilanciata da una certa naturalezza, sia nella scrittura che nella messa in scena…

Sì, abbiamo voluto controbilanciare la teatralità con un linguaggio semplice, il meno letterario possibile. Padura ha il dono di saper descrivere i cubani di strada, di restituire il ritmo che li contraddistingue. Ho quindi girato con due camere, come avevo fatto per La classe, con cui avevo già cercato di rompere il quadro costrittivo di un unico ambiente. In questo modo il registro cinematografico è concepito per essere interamente al servizio degli attori, per lasciare loro il più possibile carta bianca. Questo permette di lasciare che le cose accadano, di filmare al tempo stesso campo e controcampo, di permettere sovrapposizioni al fine di cogliere un dialogo vivo e vero.

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Percepiamo anche un’apertura sulla città: i rumori di una partita di baseball, l’uccisione di un maiale, una lite coniugale…

L’idea era quella di accogliere la vita della città sulla terrazza piuttosto che andarla a cercare. A L’Avana tutto sembra vicino, i rumori sono invadenti, si vive in un mondo comunitario. Abbiamo a lungo cercato la terrazza sulla quale abbiamo girato il film, salendo un numero incalcolabile di piani. Ne volevo una sul lungomare Malecòn, perché mi sarebbe piaciuta una doppia apertura: da un lato il mare, dall’altro i tetti della città. Avevo in testa una terrazza che fosse un po’ come una zattera. Il problema è che il Malecòn è il posto più rumoroso de L’Avana! In più un altro vincolo era costituito dai muri che si innalzano sulla maggior parte dei tetti, impedendo di vedere al di là quando le persone sono sedute. Poi abbiamo trovato la terrazza, qui i corrimano di filo permettevano uno sguardo aperto. Si trova al centro de L’Avana, in uno dei quartieri più poveri della città. Il primo giorno di riprese, c’è stata una tempesta tropicale che ha allagato le strade e distrutto alcune case…

Fino a che punto lei si rivede in questa storia?

La necessità del gruppo, la nostalgia dell’epoca in cui si credeva in un ideale, mentre oggi ho l’impressione di aver abbassato un po’ le braccia. Tutto ciò mi sembra sufficientemente universale perché io mi ci possa ritrovare. Cubano o no, la questione delle delusioni che si accumulano col passare del tempo è un male comune. Allo stesso modo, quando filmo i ragazzi americani degli anni ’50 ho la sensazione di parlare di quei ragazzi che oggi ritrovo nelle periferie parigine…

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