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Un Sogno Per Papà, il rapporto padre-figlio tra “palle” e palloni

Adattato partendo dalla graphic novel Dream Team di Mario Torrecillas e Arthur Laperla, giovedì 5 dicembre arriva al cinema Un Sogno Per Papà, il film diretto da Julien Rappeneau con François Damiens e Maleaume Paquin.

Il film

Il piccolo Theo (Maleaume Paquin), soprannominato “Formica”, vorrebbe ridare un po’ di speranza a suo padre Laurent (François Damiens), un uomo solitario e deluso dalla vita. L’occasione si presenta quando è sul punto di essere reclutato da un’importante squadra di calcio inglese, ma alla fine viene scartato perché troppo piccolo. Non volendo dare a suo padre l’ennesima delusione, Theo si lancia in una farsa che diventerà ben presto più grande di lui.

Julien Rappeneau

Lasciamo spazio ad un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Julien Rappeneau.

Cosa ti ha colpito di più di questa storia?

Prima di tutto la tematica: è la storia di un ragazzino che lotta per sostenere suo padre, un uomo in cui non crede più nessuno. Penso che questo sia un soggetto forte e toccante di per sé. Il modo in cui questo bambino inventa una grossa bugia per farlo tornare ad avere fiducia nella vita è molto denso dal punto di vista della drammaturgia. E per di più solleva una domanda interessante: si può essere salvati da una bugia? Era da tanto che volevo fare un film dal punto di vista di un bambino. È una fase fondamentale della vita, il periodo in cui si viene forgiati e le emozioni sono molto intense… Ma la cosa che mi ha colpito di più è questo rapporto tra padre e figlio.

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In questo film vengono trattati temi problematici, come l’emarginazione, la depressione, l’alcolismo, le coppie separate, eppure si tratta di una commedia.

Ho scelto un sapore agrodolce. Temi come questi possono essere affrontati anche senza toni drammatici, con un po’ di ironia e immaginazione. Non c’è niente che mi piaccia di più di un film che mi fa ridere e commuovere un attimo dopo. Gli inglesi sanno farlo molto bene; mi piacciono molto le commedie a sfondo sociale, come Full Monty, Billy Elliot, i film di Richard Curtis e, ovviamente, quelli di Ken Loach. Nel mio film la bugia di Théo è uno spunto che si presta in modo interessante alla commedia e alla drammaturgia: cosa nascondiamo? Cosa inventiamo per nascondere la verità? Questo ragazzino, con l’aiuto del suo amico, renderà tutto un gioco, inconsapevole del fatto che tutto può esplodere da un momento all’altro. Questo gioco mi piace molto; il semplice fatto di dover romanzare, inventare qualcosa, crea una dinamica e rimette in azione i personaggi. La bugia di Théo comporta dei rischi ma non è di natura distruttiva perché nasce da un sentimento d’amore: è una candida bugia a fin di bene. Théo non sa nemmeno se vuole diventare un calciatore e andare nella squadra dell’Arsenal, ma coglie la palla al balzo per provare a far uscire di casa suo padre, chiedendogli di fargli da allenatore e dandogli degli obiettivi con l’aiuto dell’assistente sociale. È un ragazzino molto sveglio.

Parliamo un po’ di calcio, anche se non è l’aspetto principale del film. È uno sport che segui?

Non sono né un tifoso né un esperto, ma come molti, seguo i grandi campionati internazionali. Il mio obiettivo non era fare un film sul tema dello sport, ma penso che questo sia uno sfondo interessante. Innanzitutto, per quello che il calcio rappresenta nella nostra società, una sorta di macchina dei sogni: nell’immaginario di molti, non si tratta solo di uno sport, ma anche di un mezzo che permette l’ascesa sociale; lo spettacolo, la celebrità, la fama internazionale, i soldi, fanno sognare genitori e figli. La realtà è ovviamente più complessa. Se i calciatori vengono individuati in giovane età da reclutatori di grandi squadre, alla fine sono in pochissimi a essere scelti. Entrare in un centro di allenamento non garantisce affatto di diventare un calciatore professionista, perché avrà successo solo una minoranza. L’altro aspetto che mi interessava era la possibilità di descrivere il calcio come fattore di coesione sociale. Le squadre amatoriali locali fanno parte della vita delle piccole città di provincia o dei quartieri; il calcio crea legami tra i bambini, tra i genitori, unisce la comunità. È uno spazio di convivialità, mantenuto da volontari e appassionati, dove avviene uno scambio, una trasmissione di valori. Era un mondo che conoscevo poco e prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura ho iniziato a documentarmi, intervistando reclutatori e allenatori di squadre per bambini. La squadra da cui Théo potrebbe essere reclutato è rimasta l’Arsenal, proprio come nella graphic novel; si tratta di una leggendaria squadra inglese, celebre per il gioco di alto livello, una squadra da sogno perfetta per questa storia.

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Perché il protagonista è stato soprannominato “Formica”?

È il soprannome che viene dato a Théo dalla sua amica Romane. Mi è venuto in mente durante la scrittura. È il più piccolo della squadra di calcio ed è a causa della sua statura che non viene reclutato dall’Arsenal. A Théo non piace questo soprannome ma, durante una delle mie scene preferite, suo padre gli spiega che la formica è l’insetto con il maggiore senso della collettività durante le avversità. È questo il fulcro della storia: la solidarietà, l’aiuto reciproco, lo spirito di squadra, le relazioni familiari, il modo in cui ci sosteniamo a vicenda per non cadere. La formica è quindi un simbolo che rappresenta tutto questo.

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