In questi giorni drammatici che stiamo vivendo con l’attenzione puntata su Bruxelles, il caso vuole che oggi al cinema esca Dio Esiste e Vive a Bruxelles, la commedia che gioca con la religione di Jaco Van Dormael uscita in Francia lo scorso 2 settembre dove ha ottenuto una fortissima risposta di pubblico. Il film, che rappresenterà il Belgio alla corsa degli Oscar per il Miglior Film Straniero, ha come protagonisti Pili Groybe, Benoit Poelvoorde e Catherine Deneuve.
«Dio esiste e vive a Bruxelles. Appartamento tre camere con cucina e lavanderia, senza una porta di entrata e di uscita. Si è parlato molto di suo figlio, ma poco di sua figlia… sua figlia sono io». Non è facile essere la figlia di Dio. Ea (Pili Groybe), undici anni, lo sa bene: suo padre – anzi, suo Padre (Benoit Poelvoorde) – è odioso e antipatico e passa le giornate a rendere miserabile l’esistenza degli uomini. Dopo l’ennesimo litigio, Ea scende tra gli uomini per scrivere un nuovo Nuovo Testamento che ci permetta di cercare la nostra felicità; ma, prima di andarsene, usa il computer del Padre per liberarci dalla più grande delle nostre paure inviando a ciascun essere umano un sms con la data della propria morte.
Il regista Jaco Van Dormael ha rilasciato un’intervista di cui presentiamo ora un estratto a seguire.
Com’è nato il progetto di Dio Esiste e Vive a Bruxelles?
Io e l’altro autore, Thomas Gunzig, siamo partiti dall’idea che Dio esista. Abbiamo immaginato che avesse una bambina di dieci anni che decide di rivelare a tutti gli abitanti del pianeta via SMS il suo segreto più gelosamente custodito, ovvero la data della loro morte. Da lì in poi, qualunque riferimento alla religione si trasforma in una favola surrealista. Non sono credente, ma sono stato cresciuto secondo il cattolicesimo. Sono interessato alle religioni così come alle belle storie. Ricordo che da bambino mi chiedevo: “Perché Dio non ha fatto niente quando Suo figlio è stato crocifisso? Perché non fa niente quando i bambini muoiono di leucemia? Perché Batman salva le persone, mentre Dio no?
Il Dio del film è completamente abietto. Prova piacere nell’appiccare incendi, far cadere aerei e massacrare orangotanghi, provocando terribili torture quotidiane alla razza umana, e allo stesso tempo incitando le persone a uccidersi tra loro in guerre interminabili combattute nel Suo nome.
Non si allontana molto dalla descrizione data dalla Bibbia. I villaggi vengono bruciati e rasi al suolo, la gente viene punita e tradita, Dio è descritto come “geloso”.
È questo il motivo per cui hai voluto cambiare le regole?
Ea, la sorella di Gesù, che lei chiama JC, rende il mondo leggermente migliore trasformando le vite di un gruppetto di assoluti perdenti. Ha solo 10 anni e, diversamente dal fratello, sa solo fare piccoli miracoli, ma riesce comunque a reclutare sei nuovi apostoli – una donna senza un braccio, un maniaco sessuale, un assassino, una donna abbandonata dal marito, un impiegato e un bambino – facendoli innamorare di alcuni candidati improbabili. È il modo usato nelle commedie per dire: “Il paradiso è qui e ora, non dopo la morte. Non vivremo a lungo. Godetevela e fate ciò che vi rende felici”.
Perché hai scelto di aggiungere sei nuovi membri alla lista dei 12 apostoli del Nuovo Testamento, che devono rappresentare la nuova gente che sarà riunita da Dio alla fine dei tempi, con il numero 12 che evoca le 12 tribù di Israele, ma anche l’umanità intera?
A Dio piace l’hockey, che è uno sport con 12 giocatori, mentre sua moglie ama il baseball, che si svolge con 18 giocatori. Gesù crede che 12 apostoli non siano abbastanza, così dice a sua sorella di trovarne altri sei per arrivare a 18. Quello è il numero preferito di JC e della madre di Ea, e capiamo il motivo alla fine del film.
Perché hai usato quasi la stessa identica struttura?
Il film è sotto forma di favola. Qualcuno che non sia stato cresciuto secondo un particolare credo può riconoscersi nel film nello stesso modo in cui farebbe con Cappuccetto Rosso o Alice nel Ppaese delle Meraviglie, poiché tutte queste storie sono incise nella nostra memoria collettiva. Il tunnel che collega la lavatrice nell’appartamento di Dio con la lavanderia, che Ea percorre, seguita dal padre, mi sembra essere tipico del genere.
Tu dai ampio spazio alle donne. Ea ha la meglio su suo padre, e anche il personaggio interpretato da Yolande Moreau finisce per avere un ruolo fondamentale. Nel tuo film, Dio ha potere solo perché costringe sua moglie e sua figlia a stare zitte. E se Dio fosse stata donna? Cosa sarebbe successo in quel caso?
È piuttosto incredibile vedere in quale stato di caos viene gettato il mondo quando tutti possono improvvisamente vedere le loro vite scorrere verso la morte. E JC dice a Ea che rendendo le persone consapevoli della loro morte, Dio perderà tutta la Sua credibilità. Non sapere la data della propria morte forse significa che abbiamo la tendenza a dimenticarcene, sentendoci immortali. Finché, cioè, la minaccia della morte non risveglia il nostro piacere per la vita. Questo è ciò che avviene ai miei personaggi quando ricevono un messaggio che li informa sulla data della loro morte. Alcuni fanno cambiamenti radicali, altri non vogliono saperlo.
Come sempre nei tuoi film, l’infanzia è al centro della trama.
Perché è l’età delle prime volte, un periodo della vita in cui le sensazioni sono amplificate al massimo. Non si è ancora civilizzati, né si riga dritto. Durante l’infanzia, c’è un periodo magico in cui non si cerca di adeguarsi alle aspettative degli altri. Poi si diventa adulti e si seppellisce il bambino che si era nel profondo della propria anima. Gli adulti sono solo bambini cresciuti. Mi piace la visione leggermente surrealista che i bambini hanno del mondo. E poi, si tratta davvero di una visione così più surreale della nostra opinione sul mondo una volta che crediamo di essere diventati razionali?
E, come sempre, gli adulti che i personaggi sono diventati hanno tutti dovuto sopportare delle infanzie dolorose.
I sei personaggi sentono che le loro vite sono passate inosservate. Ognuno ha un sassolino nella scarpa che lo tormenta e che lo fa sentire male. Aurélie, la donna senza un braccio, è bellissima, ma è convinta di non poter essere amata perché le manca un arto. Marc, il maniaco sessuale, riesce solo a pensare a donne nude. L’assassino non ha sentimenti, se non la sua attrazione per la morte. La donna abbandonata dal marito si sente responsabile del suo destino, e Jean-Claude si è svenduto per fare un lavoro che odia. Ma se si gratta un po’ sotto la superficie, i bambini che erano una volta sono ancora lì, nascosti nell’ombra.
Bruxelles gioca un ruolo importante nel film.
Volevo mostrare la città in cui vivo, usando i luoghi che attraverso ogni giorno, sentendo il suo mix di accenti: quello di Bruxelles, quello vallone, quello fiammingo, francese, e lussemburghese. Volevo che il Dio del mio film esistesse in uno spazio tangibile, una città perennemente in costruzione dove non funziona niente, un luogo così orribile da diventare bellissimo.
In Dio Esiste e Vive a Bruxelles, la risata è costantemente in tensione con le emozioni forti.
La risata è un registro interessante perché si avvicina a quello del dolore e della disperazione. Ridiamo sempre per cose che troviamo un po’ dolorose.
Lavori spesso usando le associazioni di idee.
Il pensiero ha la libertà di non essere lineare. Mi piace quanto il cinema riproduce i meccanismi del pensiero, piuttosto che cercare di far finta che si tratti della realtà. Come la letteratura, il cinema ha il potere di riprodurre i meccanismi del pensiero, delle sue associazioni, di occuparsi della percezione piuttosto che del reale. Il reale – quella convenzione che consiste nel dire allo spettatore: “Questa è la realtà, fidati di me” – è di poco interesse per me. Al contrario, sono affascinato dalla libertà del nostro cervello di orchestrare le nostre percezioni, costruendo un teatro di vita, organizzando una storia basata su ciò che ci circonda. È questa complessità che cerco di esplorare provando a far sì che i miei film rispecchino questa misteriosa esperienza che tutti noi condividiamo, la strana esperienza di essere vivi. La letteratura lo fa continuamente; anche il cinema muto e i film degli anni ’60 e ’70 prendevano in considerazione questa complessità. Il cinema di oggi è diventato più lineare.
Parlaci della regia. Avevi qualche riferimento pittorico in mente? Certi film?
Avevo in mente alcuni ritratti, ritratti fotografici in cui il soggetto guarda nell’obiettivo. Molte riprese nel film sono costruite in questo modo: sono ritratti animati in cui si vede la vita che scorre. Lo stile di un film è spesso costruito attorno a un errore che si ripete. È tutta una questione di scegliere l’errore giusto. In questo caso, volevo che fosse frontale, per dare una certa teatralità, e simmetrico, come nelle chiese. Quasi tutte le inquadrature – cose di tutti i giorni come un’auto che passa davanti al portone di un palazzo – sono state costruite sulla base di questa ricerca della simmetria e dell’approccio frontale che richiama le immagini sacre.
Avevi mai paura di turbare la Chiesa Cattolica?
Non ci ho pensato molto. Non provo nessun gusto nel cercare di scioccare, ma non ho nemmeno tentato di evitare di essere scioccante. Ho semplicemente raccontato una storia.