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Emmanuelle Bercot dirige 150 Milligrammi, la battaglia di Irène Frachon

Sidse Babett Knudsen interpreta Irène Frachon in 150 Milligrammi, il film diretto dall’attrice e regista Emanuelle Bercot tratto da Mediator 150 Mg, il libro-inchiesta della stessa Frachon. La pellicola è stata presentata in anteprima al Toronto Film Festival e alla Festa del Cinema di Roma.


Nell’ospedale di Brest dove lavora, la pneumologa Irène Frachon (Sidse Babett Knudsen) scopre un legame diretto tra una serie di morti sospette e l’assunzione del Mediator, un farmaco in commercio da oltre trent’anni. Dall’inizio in sordina all’esplosione mediatica del caso, la storia ispirata alla vita di Irène Frachon è una lotta di Davide contro Golia per arrivare finalmente al trionfo della verità.

Vi proponiamo ora di seguito un  estratto dell’intervista rilasciata da Emmanuelle Bercot.

Come le è venuta l’idea di fare questo film?

Come tutti avevo sentito parlare del caso Mediator, ma senza prestarvi particolare attenzione. Ricordo di essere rimasta colpita da una dichiarazione del deputato Gérard Bapt alla radio, ma la vicenda non mi appassionava più di tanto. Sono state le produttrici Caroline Benjo e Carole Scotta, ad interessarsi al libro di Irène Frachon e a chiedermi di leggerlo. Mi sono subito resa conto che questa donna variopinta sarebbe potuta essere uno straordinario personaggio di finzione. Raccontato da lei, con tutta la sua passione e tutta la sua emotività, il caso assumeva una dimensione completamente nuova. Non era più la storia del Mediator, ma la storia della lotta di questa donna straordinaria.

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Come le è apparsa Irène Frachon durante questo primo incontro?

Molto naturale, molto spontanea, tutt’altro che politica, una persona normale a cui è capitata una vicenda straordinaria. Non è qualcuno che agisce per calcolo. È dotata di un’energia straordinaria, è una specie di rullo compressore con una grandissima gioia di vivere. Irène ride molto, anche quando racconta cose serie. È alquanto emotiva, passa facilmente dal riso alle lacrime. Ha un linguaggio piuttosto fiorito, che dà l’impressione che sia una persona che commette spesso delle gaffe e che se ne frega delle convenzioni.

Irène Frachon non ha mai fatto mistero di essere protestante. La sua fede è anzi un aspetto importante, costitutivo, della sua personalità. Ora, per un motivo che la preghiamo di spiegarci, questo fattore non appare nel film…

Ha ragione, la religione di Irène Frachon è un parametro estremamente importante. Se è riuscita a reggere il colpo è per una parte merito della sua fede e per l’altra è merito dell’incredibile nucleo famigliare che la circonda. Tuttavia, la fede di Irène è completamente assente nel film e la famiglia è presente solo in filigrana. La ragione? Avrebbe avuto un senso solo se non fosse stato un aspetto aneddotico e in due ore non si ha il tempo di raccontare più di tanto. Inoltre, volevo rendere questa storia il più universale possibile e al tempo stesso evitare di dare un eccessivo rilievo a Irène. Preciso peraltro che lei non ha mai espresso il desiderio di veder citata nel film la sua appartenenza religiosa. Ma ha voluto prestare a Sidse la sua croce ugonotta in modo che potesse portarla durante tutte le riprese. Dunque questo lato del personaggio non è totalmente assente.

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Il film è anche un terribile atto di accusa contro l’amministrazione sanitaria. In questo senso, si tratta anche di un film politico, di denuncia, che va al di là del ritratto di questa “Erin Brockovich di Brest”.

Io mi nascondo dietro a Irène. È lei che denuncia, io non faccio altro che seguire il suo percorso. Non denuncio nulla che non abbia già denunciato lei in prima persona. Tutti i fatti menzionati nel film sono stati accertati.

Guardando il suo film, molto spettatori scopriranno la collusione che può esistere tra certi medici e certe società farmaceutiche. Prima di interessarsi a questo caso e malgrado suo padre gliene avesse parlato, sospettava che queste pratiche potessero assumere tali proporzioni?

Non sono ingenua, conosco il potere delle case farmaceutiche. Ma so anche che ci sono tantissimi medici che lavorano molto bene con i laboratori, senza conflitti di interesse, né corruzione. Come dice Irène nel film: “Anch’io collaboro con le case farmaceutiche e sono favorevole all’innovazione terapeutica”. Detto questo, ci sono alcuni fatti in questa vicenda che mi hanno davvero molto sorpresa. Per esempio, il fatto che Antoine, il ricercatore che ha aiutato Irène a corredare di un fondamento scientifico il suo dossier, non fosse riconosciuto dall’INSERM [l’Istituto nazionale francese di salute e ricerca medica] semplicemente perché alcuni dipendenti di Servier facevano parte della giuria. È allucinante, no?

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Nel film, qualcuno dice: “Non c’è una vera lotta senza la paura”. La paura – la paura di Irène – è onnipresente. Sente anche lei questa paura?

No, per niente. Non sono una che si spaventa facilmente. Irène parla molto della paura che ha provato. C’è da dire che ha vissuto dei momenti davvero duri. Per esempio, quando è stata condannata a togliere il sottotitolo del suo libro, “Quanti morti?”. Quando racconta questo episodio, si percepisce che ha toccato il fondo. È stato difficile rendere questo nel film. Tuttavia, anche se si tratta di un film di genere, non volevo appesantirmi troppo su una paranoia che era la sua, sulla sensazione di avere contro il mondo intero, di essere circondata di nemici. A maggior ragione perché non ha mai subito minacce fisiche, né lei in prima persona, né i suoi figli. Avremmo dovuto distorcere la realtà per mettere in scena questo aspetto sullo schermo e io ho sempre avuto l’obiettivo di aderire ai fatti realmente accaduti in questa vicenda, senza estrapolarli né distorcerli.

Irène Frachon ha detto a più riprese che ci vorrebbe una legge che punisca coloro che attaccano i whistleblower, chi denuncia un’irregolarità. Suppongo che lei sia d’accordo?

Sì, lo sono al cento per cento. I whistleblower dovrebbero essere protetti e dovremmo punire coloro che li attaccano. Eppure, è da poco accaduto l’esatto contrario nel corso di un processo in Lussemburgo. I whistleblower sono stati condannati. Un tribunale ha potuto quindi dire a chi ha denunciato un’irregolarità: “Ha fatto bene a rivelare certi fatti, ma dal momento che è vietato, subirà una condanna”. È disgustoso!

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A suo parere, che cosa muove il coraggio di Irène Frachon? Il suo acuto senso di giustizia?

Il suo puro istinto di medico, la sua vocazione autentica. Lei che non ha mai cercato di fare carriera ed è, a detta di tutti, un ottimo medico. Forse non sarà una grande scienziata, ma è sicuramente un medico eccellente e possiede fiuto e genialità nelle sue diagnosi. Penso che se è riuscita a portare sino in fondo la sua battaglia il merito stia nella sua immensa empatia nei confronti delle vittime e anche nella sua deontologia. Irène Frachon è una Giusta, una donna pura. Nel suo grande candore, non vede il male. Fa il medico unicamente per assistere e curare le persone, non è alla ricerca di potere e dunque non ha mai avuto paura di compromettersi.

Centinaia di morti avrebbero potuto essere evitate se i laboratori Servier e le autorità sanitarie avessero fatto correttamente il loro lavoro di farmacovigilanza. Come possiamo qualificare l’atteggiamento della giustizia in merito a questo caso? È stata lenta, troppo lenta? Indulgente, troppo indulgente?

Per il momento, di fatto, il processo penale è costantemente rinviato. Speriamo che prima o poi qualcosa succeda. Anche le vittime hanno diritto di avere giustizia.

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Irène Frachon a volte cita una frase di Albert Einstein: “Il mondo è un posto pericoloso in cui vivere, non a causa di coloro che compiono azioni malvagie, ma a causa di coloro che stanno a guardare senza fare niente”.

Lo penso profondamente. Siamo in pochi a poterci identificare con Irène Frachon. Al contrario, siamo in tanti a poterci identificare con coloro che, senza fare nulla, stanno a guardare gli altri che risolvono i problemi.

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