A pochi giorni dal 20° anniversario della sua morte (19 gennaio), giovedì 9 gennaio 2020 arriva al cinema Hammamet, il film diretto da Gianni Amelio che racconta gli ultimi sei mesi di vita del leader socialista Bettino Craxi, magistralmente interpretato da uno strepitoso Pierfrancesco Favino. Fu proprio ad Hammamet in Tunisia che Craxi passò gli ultimi anni della sua vita a seguito della super inchiesta di Mani Pulite. Nel cast ci sono anche Renato Carpentieri, Claudia Gerini, Livia Rossi e Luca Filippi.
Il film
Il nome di Bettino Craxi, una delle personalità più discusse del Novecento italiano, una volta riempiva le cronache, è chiuso oggi in un silenzio assordante. Fa paura, scava dentro memorie oscure, viene rimosso senza appello. Il film si concentra più sul lato privato che sull’uomo politico, anche se non mancheranno riferimenti alla situazione politica dell’epoca e riflessioni sulla perdita del potere che interessò il leader socialista. Malato da tempo di diabete, colpito da un tumore al rene, irrimediabilmente compromesso come uomo politico ed “esiliato” dal proprio Paese, il film racconta gli spasmi di un’agonia, come sostenuto dallo stesso regista. Basato su testimonianze reali, il film non vuole essere una cronaca fedele né un pamphlet militante. L’immaginazione può tradire i fatti “realmente accaduti” ma non la verità. La narrazione ha l’andamento di un thriller, si sviluppa su tre caratteri principali: il re caduto (Pierfrancesco Favino), la figlia che lotta per lui (Livia Rossi), e un terzo personaggio, un ragazzo misterioso (Luca Filippi), che si introduce nel loro mondo e cerca di scardinarlo dall’interno.
Gianni Amelio
Riportiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata da Gianni Amelio a Gian Luca Pisacane.
Perché un film su Craxi?
Hammamet non è un film “su Craxi”, anche se è lui il protagonista e il motore del racconto, che comunque si concentra più sull’uomo che sul politico. Sono partito da una proposta del produttore, che voleva un film su Cavour e sul suo legame con la figlia. Allora mi si è accesa la classica lampadina: perché non portare la storia un secolo più avanti, perché non parlare di qualcosa più vicina ai giorni nostri, una vicenda ancora calda, non “sanata”? Così mi è venuto in mente Craxi. Da quello che sapevo, sua figlia gli è stata accanto nella buona e nella cattiva sorte. Non volevo fare una biografia, né il resoconto esaltante o travagliato di un partito. Meno che mai un film che desse ragione o torto a qualcuno. Volevo, come penso sia compito del cinema, rappresentare comportamenti, stati d’animo, impulsi, giusti o sbagliati che fossero. Cercando l’evidenza e l’emozione. Ho provato ad avvicinarmi ai personaggi quel tanto che permettesse non a me, ma allo spettatore, di giudicarli. Se avessi voluto fare un film in gloria di Craxi, magari mi sarei concentrato sulla notte di Sigonella, non sulla sua caduta. Ho scelto di metterlo a confronto, nei suoi ultimi mesi di vita, con una figlia appassionata e decisa, che ho chiamato Anita, come Anita Garibaldi.
Da quali suggestioni è nato il rapporto padre‐figlia?
Tre riferimenti: Elettra/Agamennone, Cassandra/Priamo, Cordelia/Re Lear. Elettra è una ribelle che combatte per la memoria del padre ucciso e vuole vendetta. Cassandra, col suo potere di prevedere le sventure, non riesce a penetrare nell’animo di Priamo. Cordelia è meno docile delle sue sorelle e perciò il suo affetto arriva tardi al cuore di re Lear. Sono tre donne forti, più degli uomini. Usano il sentimento filiale per aiutare il genitore contro se stesso, oltre che contro il fato avverso. Non so nemmeno ora se un personaggio così ambiziosamente “alto” corrisponda davvero alla figura che c’è nel film, ma non volevo fotografare la realtà, forse per paura che la realtà mi avrebbe tolto un po’ di spinta emotiva. Comunque mi sono dovuto confrontare con un nucleo famigliare nel quale, confesso, sono entrato in punta di piedi e un po’ di diffidenza… La prima persona che ho incontrato è stata la vedova, la signora Anna Craxi, poi Stefania Craxi, e infine Bobo Craxi. Ci siamo visti principalmente nella villa di Hammamet, dove poi ho girato gran parte del film. Di Anna Craxi ho scoperto un’indole cinefila inaspettata, e le ho reso omaggio. Una volta mi ha domandato quale fosse secondo me il più bel western di Anthony Mann. Le ho risposto: Là Dove Scende il Fiume. E si vede alla televisione…I riferimenti sono anche a Le Catene Della Colpa di Jacques Tourneur e a Secondo Amore di Douglas Sirk. Perché, guardandolo da una certa prospettiva, Hammamet ha un andamento un po’ western, un po’ noir. E vorrebbe, a suo modo, essere un melodramma. Nel film di Sirk il televisore che i figli regalano alla madre è mostrato come una prigione. Nella casa del mio film la tivù è sempre accesa. Basta pensare alla sequenza di Porta A Porta.
Lei ha mai condiviso le idee politiche di Craxi?
Non sono mai stato un simpatizzante né ho mai votato socialista, se è questo che intende. Mi ricordo che quando Craxi era all’apice del potere, avevo fastidio della sua costante presenza su tutti i telegiornali e sulla carta stampata. Un giorno lessi un’intervista a Fellini, dove diceva: “Sono stufo di svegliarmi tutte le mattine e vedere in prima pagina, a caratteri cubitali, che cosa ha pensato Craxi la sera prima”. Questa era un po’ la mia posizione. Anche se l’episodio delle monetine davanti al Raphael l’ho sempre disapprovato. Non fu un gesto politico. Le idee si combattono con altre idee, non con sputi, insulti e minacce.
Qual è la sua posizione su Craxi oggi?
Che importanza ha la mia posizione personale? È il film che deve rispondere, non io. Vorrei allontanare l’idea di aver fatto un film politico, e men che meno militante. Non sono il regista adatto. Parlo di un uomo potente che ha perso lo scettro, e deve fare i conti con la fine della propria vita, oltre che con quelli lasciati in sospeso con la giustizia. In superficie sfida tutto e tutti, sfodera la sua arroganza, grida le proprie ragioni come se fossero assolute e assolutorie. In profondità combatte contro se stesso. Ma in ogni caso, quello che un personaggio esprime non deve necessariamente essere condiviso dal regista. Il cinema è rappresentazione, non comizio o propaganda. Per essere ancora più chiaro, ho usato due formati sullo schermo: il 16:9 e il 4:3. Quasi tutte le prese di posizione del Presidente, che si possono condividere o no, sono viste dall’obiettivo di una telecamera, quasi virgolettate.
A quali fonti si è ispirato per realizzare il film?
In genere si parte da esperienze personali, da letture, suggestioni varie, specialmente quando si raccontano storie e personaggi di fantasia. Per quanto riguarda Craxi, io e lo sceneggiatore Alberto Taraglio abbiamo letto libri, giornali, approfondito polemiche, guardato spezzoni televisivi, da non saperne più dare conto. Mi sono immerso in una enorme quantità di materiale, e poi ne sono uscito. Non volevo fare un film storico o un pamphlet. Qualcuno ha insinuato al buio che Hammamet andrebbe contro Mani Pulite, ed è una grande sciocchezza.
In Hammamet il nome Craxi non si sente mai.
Perché non è necessario. È talmente evidente che stiamo parlando di lui che non serve nominarlo. La somiglianza è totale, e in parte il film l’ho girato a casa sua.
Che cosa ha significato girare proprio nei “luoghi dell’azione”?
Chi vuole denigrare il film a tutti i costi, qui trova pane per i suoi denti. Si può immaginare che abbia lavorato sotto dettatura, con la famiglia Craxi e tutto quello che resta del partito socialista attorno alla macchina da presa, a suggerirmi le inquadrature, le battute… Questo è ridicolo solo a pensarlo. Mi hanno lasciato la villa come se fosse un set già pronto, con un custode che ci apriva il portone ogni mattina. Se avessi potuto, avrei scelto un altro posto, per evitare ogni preconcetto. Ho setacciato tutta la Tunisia, e mi sono accorto che non esiste un’abitazione con quelle caratteristiche. Non è una reggia di rappresentanza, per le vacanze e le feste. È una residenza molto sobria, lontanissima dal mare, immersa negli uliveti, un buen retiro in un Paese al quale Craxi era legato da tempo. Le ragioni di questo legame le lascio agli storici. Quando si parlava di “esilio” o “latitanza”, si aveva insieme ragione e torto. Negli ultimi tempi Craxi ha avuto due condanne passate in giudicato, ma non penso che lo si potesse definire un “latitante”. Tutti conoscevano il suo domicilio, tutti sapevano dove trovarlo, non bisognava dargli la caccia. Non sono mai andati a prenderlo, perché non conveniva a nessuno. In Tunisia non c’era l’estradizione. Spettava a lui decidere se consegnarsi o no alla giustizia. Sono problemi che il film pone, ma non deve per forza fornire le risposte.
Com’è stato lavorare con Pierfrancesco Favino?
C’è in giro una battuta divertente: “Amelio ci ha preso in giro, ha fatto recitare Craxi spacciandolo per Favino”. Favino è stato eroico. Ogni mattina sopportava cinque ore di trucco, e ne servivano altre due per ridargli la sua faccia. Ma lui è andato oltre, da quell’immenso attore che è. Ha fatto un lavoro mimetico sui gesti, sulla voce, sullo sguardo. Mi piace ripetere che il suo talento è una sorta di malattia, da cui spero non guarisca mai. Abbiamo utilizzato una tecnica di trucco all’avanguardia, già sperimentata in Inghilterra. Penso che sia la prima volta che la usiamo in Italia. Serviva una personificazione totale, e dovevamo scacciare lo spettro della “somiglianza” e basta. Per questo film io volevo Favino, nessun altro. E l’ho aspettato sei mesi.
Nel film c’è una figura inventata, una sorta di coprotagonista/antagonista.
È vero, ma non bisogna svelare troppo. Appartiene all’anima thriller del racconto. Questa figura è come il figlio cresciuto di Colpire Al Cuore, un film per certi aspetti vicino ad Hammamet. La relazione di allora tra i protagonisti e il terrorismo, qui si ripropone con la giustizia. C’è tensione, mistero, lo vedrete.
In Hammamet c’è un’affilata ironia.
Un’ironia che magari non arriva subito, ma c’è quasi sempre nei miei film. Forse è di grana diversa, affilata, come dice lei. È un modo di guardare le cose, anche le più drammatiche.