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Il Palazzo, il cinema della vita nel documentario di Federica Di Giacomo

Presentato come Evento Speciale alle Giornate Degli Autori in occasione della 78esima Mostra del Cinema di Venezia, mercoledì 16 marzo uscirà nelle sale Il Palazzo, il film documentario di Federica Di Giacomo che racconta una comunità di amici che, dopo molti anni, si ritrova insieme per celebrare la vita e la morte prematura dell’amico più emblematico del gruppo.

Il documentario

Nel cuore di Roma, con vista San Pietro, si erge un Palazzo. Il proprietario, come un mecenate rinascimentale, negli anni offre asilo ad una eclettica comunità di amici che ne trasforma ogni angolo in un set cinematografico permanente. Mauro, il più carismatico del gruppo, dirige i condomini in un film visionario, isolandosi progressivamente dal mondo esterno fino a non uscire più dal Palazzo. Nel momento della sua morte prematura, il gruppo di amici si ritrova, chiamato a ricevere in eredità le migliaia di ore filmate del capolavoro incompiuto a cui tutti hanno preso parte. Un lascito che scuote lo spirito assopito del gruppo e mette ciascuno a confronto con i propri sogni giovanili, in un tragicomico romanzo di formazione fuori tempo massimo.

Federica Di Giacomo racconta…

“Ho iniziato a frequentare il Palazzo più di dieci anni fa, appena arrivata a Roma. Fui chiamata da Mauro, visionario regista e carismatico leader di una comunità di amici, che cercava un’operatrice video per le scene più difficili del suo famoso kolossal che come ogni cosa a Palazzo, sarebbe rimasto incompiuto. Ero intrigata dal sistema Palazzo creato da Rocco, il proprietario, un luogo da cui l’ansia dell’inserimento sociale, la retorica del lavoro nobilitante, erano state bandite a favore di una produzione culturale eccentrica fatta dai molti amici che occupavano, a titolo gratuito, gli appartamenti dell’edificio. Non ne uscivano quasi mai, come prigionieri di una malia, irretiti dal connubio fatale di bellezza e comodità. Andai molto presto per la mia strada ma quel luogo, restava nella mente come uno spazio di espressione non conformista e vitale, da tenere a distanza di sicurezza, e al contempo da custodire come un piccolo giardino segreto. Impossibile da vivere, ma pur sempre candidato a diventare oggetto di un racconto, tanto che iniziai più volte a riprenderlo”.

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“L’occasione per farne un film avvenne quando Rocco e Mauro, che non usciva più dal Palazzo da tanto tempo, decisero di terminare il loro film ancora incompiuto dopo vent’anni, grazie alla vendita di un appartamento. Questo produsse un’atmosfera di rinnovata euforia al Palazzo che si unì ad un atteggiamento di grande disponibilità di Mauro ad essere ripreso nonostante le sue precarie condizioni di salute. Come diceva sempre, la malattia gli aveva ormai tolto ogni residuo di vanità, tanto da non avere più nessun timore della sua rappresentazione. Un film, il mio, che era diventato urgente anche perché le contraddizioni del sistema Palazzo stavano diventando insostenibili e visualmente pronte a esplodere, nel corpo segnato e straboccante di Mauro e nel soggiorno di Corrado straripante di strumenti musicali. Una resa dei conti con la realtà esterna dai toni surreali, che riguardava il passare del tempo ed il confronto con i propri sogni, non ambientata però in un frammento sociale degradato, facilmente retorico, ma in un mondo a parte nel centro di Roma e del benessere”.

“Dopo pochi mesi però mio padre si ammalò improvvisamente, io mi trasferii al nord per assisterlo. Poco prima Mauro mi aveva consegnato un archivio fatto di migliaia di ore di riprese di film girati all’interno del palazzo nell’arco di vent’anni con tutti i loro amici. Nel frattempo le sue condizioni ebbero un drammatico tracollo che lo portò presto ad andarsene. Quando ritornai a Roma, reduce anch’io da un lutto durissimo, fui invitata sul terrazzo del Palazzo alla veglia funebre voluta da Mauro per i suoi amici. Sentii che forse avrei dovuto riprendere quel momento per rendergli omaggio. Solo durante quella ripresa capii perché avevo dovuto aspettare così tanto tempo per realizzare questo film. Il mio punto di vista si era arricchito, anche se grazie ad eventi molto dolorosi, di una comprensione completamente diversa di quella comunità di persone che si erano strette fra di loro su quel terrazzo. In tutti i loro discorsi sulla vita di Mauro e sulla sua scomparsa sentivo quella struggente ricerca di senso che gli esseri umani ritrovano solo in eventi come questo. Sentivo che ognuno di loro, come me, si stava più o meno segretamente comparando all’amico deceduto, cercando di capire quanto avessero in comune con lui e cosa invece li potesse distanziare da un destino così feroce”.

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“Il lutto diventa così l’innesco narrativo che conduce i protagonisti a ritrovarsi vent’anni dopo, scuotendone le esistenze, ed il tempo della rielaborazione del lutto diventa l’unità di misura all’interno della quale si costruisce un flusso di stati emotivi più che di eventi. Il film vive di quella particolare energia che si sprigiona dopo il contatto con la morte che non è solo quella dell’amico scomparso ma rappresenta anche la fine della giovinezza e del gioco, fatta di domande sul senso e sulla capacità di costruire qualcosa che rimanga, in una società che rimuove costantemente proprio la morte. Una sorta di sinfonia corale, destrutturata e tragicomica su quell’incompiuto che è stata la cifra essenziale del Palazzo ma anche un racconto generazionale sull’amicizia, sul rapporto fra il proprio tempo interiore ed il tempo esterno, sulla difficoltà di cambiare“.

Spesso ognuno di noi si crea un personaggio, coscientemente o no, dal quale non riesce più ad uscire nella vita reale. Tutto il gruppo di amici ha già recitato per Mauro ed in un certo senso recita se stesso anche per me, questa volta senza copione, in un gioco fra realtà e finzione cinematografica che diventa una metafora interessante del rapporto con la nostra immagine e quella che il passato ci restituisce, attraverso la memoria orale e visuale dei nostri amici. Il concetto di personaggio diventa quindi la chiave per sperimentare altre possibilità di linguaggio nel cinema del reale utilizzando l’immenso archivio collettivo visuale fatto di vita quotidiana ma soprattutto di autorappresentazione filmica come punteggiatura che muove il film e le dinamiche del gruppo”.

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“Attraverso una storia privata ho voluto anche raccontare una marginalità non immediatamente visibile ma non meno dolente, quella di una delle prime generazioni che ha investito nell’istruzione e nella cultura per poi ritrovarsi in una precarietà endemica, un boicottaggio a livello sociale ed economico che si traduce spesso in auto‐boicottaggio. Un disagio che resta sottopelle, forse anche una difesa della propria unicità, declinata in modo autoironico e non consolatorio“.

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