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Isabelle Huppert, trauma e violenza in Elle

Vincitrice del Golden Globe e candidata all’Oscar, una superlativa Isabelle Huppert è la protagonista di Elle, il tagliente film di Paul Verhoeven tratto dal romanzo Oh… di Philippe Djian. Acclamato dalla critica e dal pubblico dell’ultimo Festival di Cannes e vincitore del Golden Globe come Miglior Film Straniero e del César per il Miglior Film, il film sarà nelle sale dal 23 marzo.


Michèle (Isabelle Huppert) è una di quelle donne che niente sembra poter turbare. A capo di una grande società di videogiochi, gestisce gli affari come le sue relazioni sentimentali: con il pugno di ferro. Ma la sua vita cambia improvvisamente quando viene aggredita in casa da un misterioso sconosciuto. Imperturbabile, Michèle cerca di rintracciarlo. Una volta trovato, tra loro si stabilisce uno strano gioco. Un gioco che potrebbe sfuggire loro di mano da un momento all’altro.

Lasciamo ora spazio ad un estratto dell’intervista rilasciata dalla protagonista, Isabelle Huppert.

Lei è stata coinvolta nel progetto di Elle fin dall’inizio…

Sì, dopo aver letto Oh… ho incontrato Philippe Djian, che mi ha detto di non averlo scritto per me ma che mi aveva avuto in mente diverse volte mentre scriveva il romanzo. Il libro –è stato detto spesso dopo la sua pubblicazione – sembrava una sceneggiatura. Si è pensato quindi subito di farne un adattamento per lo schermo. Poi è entrato in scena Saïd Ben Saïd: ha acquisito i diritti del romanzo e abbiamo cominciato a pensare ad un regista. È stato Saïd a pensare a Paul Verhoeven.

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Cosa le è piaciuto del romanzo e di questo personaggio femminile?

È una donna che non cede, mai. Ha molteplici aspetti: è cinica, generosa, accattivante, fredda, dignitosa, indipendente, dipendente, lucida. Non è una sentimentale, le succedono un sacco di cose, una più complicata dell’altra, ma lei non crolla mai. Verhoeven ha tenuto questa linea – non ha mai cercato di stemperare in alcun modo gli accordi iniziali, su questo potevamo contarci. In questo risiedono il fascino del personaggio, la sua forza, la sua originalità, la sua modernità. Non si comporta mai come una vittima, nonostante avrebbe tutte le ragioni per farlo: vittima di un padre che ha commesso una strage, e poi del suo violentatore. La colpa, subire quello che ci ferisce… Tanti aspetti dei quali non è facile sbarazzarsi quando si ha a che fare con dei personaggi femminili. Anche se ci sono delle donne forti, si ha sempre la tentazione di cedere a questi cliché.

Grazie alla sua interpretazione, sempre un po’ distaccata, ironica, riesce ad evitare di prendere quella china…

Sì, ho resistito! Sarebbe stato un grave errore addolcirla. Ma, ancora una volta, con Verhoeven il rischio non c’era veramente! Il solo momento in cui mi sono concessa un’emozione è nella scena dell’ospedale, quando la madre è malata e si capisce che sta per morire. Improvvisamente c’è come un rammollirsi del personaggio di Michèle. Non quando è madre, amante o figlia di suo padre, ma quando è figlia di sua madre. Forse per una donna la morte della madre segna il passaggio definitivo all’età adulta? Estrapolo un po’, ma solo per dire che in quel momento non mi sarebbe dispiaciuto se la camera alla fine avesse registrato questo: un po’ di emozione, occhi che si riempiono di lacrime, uno sguardo sconvolto. Ma anche il cinema ha un suo inconscio! Non vede quello che non vuole vedere.

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Il film ci offre elementi sul suo personaggio ma nessuno, neanche il crimine del padre, lo spiega completamente.

Sì, il film è troppo veloce perché sia possibile. Cercare di spiegare i personaggi finirebbe quasi col rompere quel punto di squilibrio in cui consiste la forza del racconto, a riportarlo ai ritmi lenti di un tentativo di spiegazione. Michèle è tutta nella scena e nel momento in cui accade. Quello che conta è come lei va avanti, non come indietreggia.

La confessione fatta da Michèle a Patrick sull’omicidio di suo padre è emblematica di questo rifiuto di ingabbiare il suo personaggio in una spiegazione: per tutto il tempo lei ci fa oscillare tra l’orrore, l’ironia, il dubbio, l’emozione…

Anche in questo caso non volevamo piombare nel racconto strappalacrime. Michèle ha preso le distanze, era il solo mezzo per lei per sopravvivere al suo passato. Ce lo presenta con un’ironia devastante, un po’ come se ci porgesse un piatto avvelenato dicendoci: ne volete un po’? Djian non ci va certo con il guanto di velluto: il padre ha ucciso settanta bambini e lei deve convivere con questo orrore, questa sciagura. Nel romanzo lei non si trovava nel luogo della strage. Nel film, non solo è presente, ma il servizio alla televisione lascia intendere che forse lei vi ha preso parte… Io non ci ho pensato. Su un piano generale il film –come il libro peraltro –accumula una tale sequenza di eventi che non mi sono soffermata su quello che forse aveva preceduto quegli eventi. Quello che conta non sono le sue reazioni al passato, ma al presente.

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Potremmo dire che al momento dell’aggressione in cantina, lei riviva il trauma vissuto prima con suo padre, poi con il suo violentatore la prima volta, ma quasi guidandone lei lo svolgimento e la violenza…

Sì, diciamo che lo stupro scatena in lei un desiderio di violenza, che certamente sonnecchiava dentro di lei fin dall’infanzia e, da brava manipolatrice qual è, sa orchestrare tutto. Anche se sa che tutto in lei è stato profondamente cambiato da quello stupro. Non ne esce indenne.

Le creava problemi interpretare una donna che prova piacere con il suo violentatore?

Di nuovo, il film è una fiaba. La fiaba porta a fantasticare. L’effetto della realtà viene modificato, alterato. In una fiaba tutto è esagerato, per cui tutto è possibile. La morale viene invitata a restarsene fuori. Tra lei e il suo stupratore si instaura un gioco, è lei a volerlo.

Contrariamente al romanzo di Djian, Michèle lavora nel settore dei videogiochi, e non in quello del cinema.

Verhoeven si serve della fantasmagoria dei videogiochi come prolungamento contemporaneo della dimensione del racconto. Un misto di violenza e di sesso come un’eco allegorica della storia del film.

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Agli uomini non toccano ruoli particolarmente belli, in particolare a Robert, l’amante di Michèle, al quale lei dice: «è la tua stupidità ad avermi sedotta!»

Sì, gli uomini subiscono un vero smacco! Il figlio, il marito, l’amante, perfino lo stupratore. Ma questi uomini deboli, talvolta fino all’accidia, non vengono per questo disprezzati, né sono disprezzabili. Il loro scoramento e la loro vulnerabilità ce li rendono simpatici. Ma è un fatto: Michèle è una donna forte, una donna della sua generazione che è arrivata al potere. Potere economico, sessuale, sociale, una piccola rivoluzione che rivela la debolezza degli uomini.

Alla fine del film, Michèle e Anna si allontanano insieme. Fino a dove?

Sì, si allontanano insieme, ma comunque in un cimitero, non certo in un prato fiorito! E dove? Non lo so, ma comunque insieme…

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