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La seconda guerra cecena in The Search, il nuovo film di Michel Hazanavicius

Dopo il trionfale The Artist (vincitore di 5 premi Oscar), arriva oggi al cinema The Search, il nuovo film scritto e diretto da Michel Hazanavicius che si ispira alla pellicola Odissea Tragica (The Search) di Fred Zinnemann del 1948. Il cast ha visto protagoniste Bérénice Bejo e Annette Bening con Maxim Emelianov, Zukhra Duishvili e Abdul-Khalim Mamatsuiev. Ambientato nel 1999 durante la Seconda Guerra in Cecenia, The Search racconta la storia di quattro persone, di quattro destini che il conflitto farà incrociare.

Fuggendo dal suo villaggio, dove i genitori sono stati massacrati, un ragazzino si unisce alla massa dei rifugiati. Incontra Carole, capo delegazione per l’Unione Europea, e lentamente, con il suo aiuto, tornerà alla vita. Nello stesso tempo Raïssa, la sorella maggiore, lo cerca disperatamente tra la folla dei civili in fuga. Poi c’è Kolia, un giovane russo di 20 anni, che si è appena arruolato nell’esercito e che verrà travolto dalla quotidianità della guerra.

Riproponiamo di seguito un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Michel Hazanavicius.

Cosa l’ha spinta a scegliere di realizzare un film sulla seconda guerra in Cecenia? 

Ho preso consapevolezza della situazione cecena attraverso André Glucksmann, uno dei pochi intellettuali francesi ad aver tentato di allertare l’opinione pubblica su ciò che avveniva sul territorio ceceno. Ho voluto girare un film sulla Cecenia, anche per confutare l’assurda teoria secondo la quale tutti i Ceceni sono terroristi. Non sapevo come approcciarmi a questo tipo di storia, ma avevo chiaro che non doveva passare per un film di guerra. Stavo ancora riflettendo quando Nicolas Saada mi ha fatto scoprire il The Search di Fred Zinnemann (1948), un melodramma su un bambino uscito dai campi di concentramento che incontra un soldato americano tra le rovine di Berlino. Nello stesso tempo sua madre, anche lei sopravvissuta ai campi, lo cerca in tutta Europa. Un bel film che mi ha convinto che quello drammatico poteva essere un buon approccio.

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Il suo film si ispira al lavoro di Zinnemann, ma se ne discosta anche in modo notevole.

La parte documentaristica, la voice-over solenne, la musica, l’aspetto della madre simile a quello di Cristo, la rapidità con cui il bambino impara l’inglese: sono cose datate. È stato necessario trovare un modo diverso di raccontare la storia. Inoltre ho voluto ampliare la dimensione del film, non mi sono voluto accontentare di un solo punto di vista. Non potevo mostrare che i Ceceni non sono un popolo di terroristi e nello stesso tempo presentare tutti i Russi come come killer dei Ceceni. Volevo invece mostrare come un sistema può stritolare la gente e trasformarla in assassini: è questa la storia che ho aggiunto.

A quali altre fonti si è ispirato?

Full Metal Jacket, ovviamente, per come l’esercito riesce a formare un assassino. Ma forse più a One Soldier’s War in Chechnya, il libro di Arkady Babchenko, che descrive la vita nella caserma di Mozdok con una reale capacità di analisi e un grande talento di scrittore. Fatte le debite proporzioni, il libro mi ricorda Se questo è un uomo di Primo Levi. Ci sono pochi documentari sulla Cecenia. Ho letto i saggi politici di Anna Politkovskaïa da un lato, e quelli di Boris Cyrulnik sulla resilienza dei bambini dall’altro, per capire il percorso di chi, dopo un trauma, torna poco a poco alla vita. Inoltre due amici ceceni hanno raccolto delle testimonianze e me le hanno inviate. Ma penso che la sceneggiatura sia costellata di reminiscenze più o meno consapevoli del genocidio degli Ebrei.

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Perché ha scelto di girare in Georgia?

Ho coprodotto Orange 2004, un documentario sulla rivoluzione in Ucraina, diretto da Raphaël Glucksmann che, dopo una serie di incontri che aveva fatto, si era stabilito in Georgia e io sono andato a trovarlo. Ho scoperto un paese che da un lato ha il Caucaso e dall’altro la Cecenia e ho pensato che corrispondeva all’idea che tutti noi abbiamo della Cecenia: la patina, i materiali, tutto un universo di rovine che ricordava i film del dopoguerra, The Third Man, A Foreign Affair, It Happened in Europe. Quel tipo di look mi è sembrato una buona allegoria dello stato emotivo dei personaggi.

Quali sono state le difficoltà maggiori che avete dovuto affrontare?

Essenzialmente problemi logistici legati alle differenti culture in campo lavorativo. In passato la Georgia era lo studio cinematografico dell’URSS, ma il paese non ha le competenze di come si gira un film oggi. Della guerra in Cecenia conoscevo soprattutto le immagini invernali, dai toni grigi, slavati, girate dalla CNN o da dilettanti. Invece in Georgia il tempo è bello fino a novembre. Il fatto di dover rappresentare la guerra, la morte, la violenza in modo brutale mi ha creato molti problemi come regista. Credo di essere stato sotto pressione perché, per quanto ne so, è il primo film di tali dimensioni su questo conflitto e dunque sentivo di avere una grande responsabilità: quella di raccontare un frammento della storia di un popolo. E poi io non appartengo a quel popolo. Sentivo di non aver nessun margine di errore e questo mette pressione…

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Concretamente, quali sono state le sue opzioni come regista per affrontare questi problemi?

Una delle sfide principali era la combinazione tra la fiction e il «realismo» del film. In ogni caso il suo lato brutale. La scelta di girare in ambienti reali, con attori non professionisti, rispettando la lingua di ogni personaggio, va chiaramente in questa direzione. Dal punto di vista puramente cinematografico, volevo una immagine che fosse abbastanza grezza, ma dettagliata, volevo il contorno dei volti, rispettando la materia e la patina dell’ambiente in cui giravamo. Volevo una vera immagine cinematografica, ma che tenesse conto della rappresentazione che noi ci facciamo di questa guerra: le immagini grigie e slavate dei telegiornali. Abbiamo fatto molti tentativi prima di arrivare a quella che è l’immagine del film. A livello di inquadrature ho cercato di rispettare le regole che mi ero fissato. Pochi movimenti, girati quasi interamente con la macchina a spalla, talvolta con scene riprese interamente dalla stessa macchina, come se l’operatore si fosse appena voltato per riprendere un altro personaggio.

Il film inizia con immagini video molto dure, quelle dell’esecuzione di una famiglia cecena da parte di soldati russi.

Sì. Ho sempre avuto dei problemi con la rappresentazione “seria” della morte violenta al cinema. Ma per parlare di un conflitto come questo, a un certo punto devi incarnare l’orrore, toccarlo con mano. Una volta è sufficiente, ma quella volta è essenziale. La grana sporca del video, una macchina a spalla, un format che non è ancora quello del film, tutto questo mi sembrava la rappresentazione visiva più giusta. Sono io che ho la macchina da presa, per un piano sequenza che dura per cinque lunghi minuti. Mi piace che cominci nel buio totale, con qualcuno che urla «cazzo, perché non funziona?». Mi piace l’idea di cominciare il film con un insuccesso. E fin dall’inizio indicare una temporalità multipla, perché vediamo due volte la morte dei genitori, nel video e poi nel film.

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The Search è nello stesso tempo un film di guerra e un film drammatico. Ma è anche un film con momenti più leggeri, talvolta comici. Questo non sorprende, conoscendo il suo lavoro, a parte il fatto che la cornice non è quella di una commedia.

Per me il punto essenziale è mostrare che la nostra umanità continua a esistere, anche nelle situazioni più drammatiche. In generale le situazioni tragiche sono quelle che racchiudono i momenti più buffi. Le persone con il senso del comico hanno quelle che Riad Sattouf chiama «antenne dell’assurdo»: conservano quella distanza necessaria per sapere quando stanno per scivolare nel ridicolo. E quelli che possiedono una coscienza politica imprimono alle loro commedie un tono serio, strutturato. È uno scambio positivo. Nei miei film spesso gioco con i clichés, in questo caso con i clichés della rappresentazione della guerra. Non volevo un film di scontri armati. Torni rapidamente bambino affascinato dai carri armati e dalle esplosioni e altrettanto rapidamente rischi di sbagliarti su quello che vuoi raccontare. Giocare con i clichés significa restare al confine dell’assurdo. Ho sempre pensato che se vuoi che il tuo lavoro abbia successo è là che bisogna stare: molto vicini all’assurdo, senza mai caderci dentro.

All’interno di una narrazione così complessa, lei ha scelto comunque di inserire parecchie testimonianze.

Mentre scrivevo pensavo che il tema centrale del film sarebbe stato l’impegno. Poi si è imposto quello della testimonianza: chi racconta? Cosa significa per Hadji raccontare la sua storia? Quando succede un avvenimento, colui che racconta ha il potere. Far cambiare di mano il potere di raccontare, è questa la sfida profonda di The Search. Ho raccolto delle testimonianze che ho riscritto e fatto interpretare agli attori. Nel film ne restano tre e penso che diano credibilità all’insieme.

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Carole, che lavora per una organizzazione non governativa ed è interpretata da Bérénice Bejo, è la sua versione del soldato americano (Montgomery Clift) nell’omonimo film del 1948?

Alla fine di The Search del 1948, quando il soldato non adotta il bambino, lo spettatore non prova pena per lui. Clift è bello come un dio, tornerà negli Stati Uniti. È un uomo, non avrà problemi ad avere un figlio. Per una donna di 35 anni, impegnata politicamente, lontana da casa, adottare un bambino suppone un cambiamento di vita radicale. La situazione mi è sembrata più forte così. Un altro motivo della trasformazione del personaggio da maschile in femminile è che in Cecenia le donne – le giornaliste, quelle che sono membri delle associazioni, le madri dei soldati russi… – sono state spesso più coraggiose degli uomini. Ho voluto che ci fossero vari confronti nel film: Russi/Ceceni, civili/soldati, bambini/ adulti, ma anche uomini/donne. In questo genere di film si trova spesso uno squilibrio che consiste nel far credere che le storie “occidentali”, soprattutto americane, sono più interessanti delle storie del posto.

Il rapporto tra Carole e Hadji, il bambino ceceno, è in effetti molto sottile: non segue un percorso circoscritto. Ad esempio, non è un rapporto madre/figlio…

Nel rapporto tra Carole e Hadji la questione che si pone è quella del ruolo degli occidentali: quale deve essere il nostro atteggiamento, la nostra empatia? È complesso accettare il dolore degli altri. Hadji non parla la stessa lingua di Carole, non la conosce. Ho voluto che all’inizio Carole fosse riluttante, che chiudesse Hadji in una stanza, senza rendersi conto che ha nove anni, che ha appena perso i genitori… Trovo commoventi le persone che si comportano in modo disinteressato e mi piaceva che Carole fosse così, ma con una sorta di pudore eccessivo che le fa dire parole poco felici, come: «Tu, almeno, non hai problemi con la tua famiglia». Carole non è coinvolta affettivamente, non ha bambini né fidanzati. Tutto il suo impegno è militante, politico. E quando si rende conto della superficialità di questo impegno, nasce un impegno personale e non più solo intellettuale, ma molto più emotivo.

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Il discorso che Carole tiene a Bruxelles, con cui cerca di avvertire i deputati europei della gravità di quello che sta succedendo in Cecenia, è una scena particolarmente importante nel percorso che lei descrive.

Lo abbiamo visto spesso in Frank Capra o nei drammi processuali: attraverso un personaggio il regista rivela se non il suo, il messaggio del film. Ma qui conosciamo la storia: una scena grandiosa per dire che l’Europa non ha fatto niente sarebbe stata grottesca. Carole non riesce a concentrarsi, il livello di ascolto è mediocre, si rende conto che non ci riuscirà. La scena si apre con riprese «ufficiali», in campo lungo. Quando lei inizia a confondersi ci avviciniamo con piani più ravvicinati. Non è mai facile per un attore tenere un discorso politico, interpretare l’indignazione. Bisogna abbandonarsi, accettare di crederci: ancora una volta il cliché e il ridicolo non sono molto lontani.

Non si può che rimanere stupiti da quanto The Search sia diverso dai suoi film precedenti.

Fino ad ora ho lavorato un po’ prendendo qua e là quello che mi interessava per rifarlo, 30 o 90 anni dopo. Imbrogliando, perché io potevo disporre di una prospettiva moderna. Nei miei film precedenti gli spettatori sapevano di assistere a uno spettacolo. Questa è la prima volta in cui non c’è distanza. L’idea non è quella di dire che la guerra è male e che bisogna evitare di morire. Ma che c’è un legame diretto con la storia, con i personaggi, che non passa più per la zona grigia dello scherzo, dove ognuno mette ciò che vuole. The Artist era un dolcetto. The Search è un’altra cosa. Non cerca di essere carino. Non ho voluto realizzare un film politico, che parla in maniera drammatica della guerra, dare la mia opinione su qualcosa che va oltre me. Scegliere di fare un film come questo è molto ambizioso, forse pretenzioso. Ma posso farcela.

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Può parlarci della fine del film?

In un film in cui il bene e il male si confrontano in modo molto brutale, ho voluto portare lo spettatore a pensare che tutti fanno un percorso. Il film ha una posizione chiara, ma non è manicheo. È un finale «ironico», non è tutto nero o tutto bianco. Eppure c’è una nota di speranza. Dopo due ore e mezza, a volte faticose, mi è sembrato che fosse il minimo. Ma dal punto di vista morale non potevo dare l’impressione che va tutto bene quello che finisce bene. La morale del film è che se bisogna scegliere tra il percorso di un carnefice e quello di un sopravvissuto, la vita sarà sempre dalla parte dei sopravvissuti.

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