Sanguepazzo Monica Bellucci Luisa Ferida

Monica Bellucci, la Luisa Ferida nel Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana

Divi e Dannati: il 30 aprile 1945, 75 anni fa, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, attori simbolo del cinema del ventennio fascista, dopo la resa ufficiale della RSI furono fucilati da partigiani. I due, che erano amanti e che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana, sono stati raccontati dal Maestro Marco Tullio Giordana in Sanguepazzo, pellicola uscita nel 2008 e presentata in anteprima mondiale (Fuori Concorso) al Festival del Cinema di Cannes. Ad interpretarli furono Monica Bellucci (nei panni di Luisa Ferida, che venne uccisa nonostante fosse incinta e del tutto innocente) e Luca Zingaretti (nella parte di Osvaldo Valenti).

Il film

L’alba del 30 aprile 1945, cinque giorni dopo la Liberazione, vennero trovati nella periferia di Milano i cadaveri di Osvaldo Valenti (Luca Zingaretti) e Luisa Ferida (Monica Bellucci), giustiziati poche ore prima dai partigiani. Coppia celebre nella vita oltre che sullo schermo, Valenti e Ferida erano stati due divi di quel cinema dei “telefoni bianchi” che il fascismo aveva incoraggiato, incarnando quasi sempre personaggi ribaldi e negativi. Anche la loro vita privata era dominata dal disordine; entrambi cocainomani e, si diceva, sessualmente promiscui. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando il paese si spaccò in due e i tedeschi da alleati si trasformarono in esercito d’occupazione, Valenti e Ferida risalirono al Nord e aderirono alla Repubblica di Salò, ultima incarnazione della follia mussoliniana.

Si stabilirono prima a Venezia, dove girarono fortunosamente qualche film, poi a Milano dove ‐ arruolati in una banda di torturatori ‐ si dettero alla borsa nera. Perlomeno queste erano le voci. Consegnatisi ai partigiani pochi giorni prima della Liberazione, i due negarono ogni addebito. Valenti giustificò i suoi traffici col bisogno continuo di stupefacenti, sminuì le presunte malefatte attribuendole alla diffamazione e all’invidia. Il Comitato di Liberazione pretese una punizione esemplare. Così calò il sipario su quei due attori un tempo celeberrimi; Valenti nel ruolo del villain, Ferida in quello della donna perduta. Chissà che alle dicerie che li rovinarono non abbiano contribuito proprio i film che ne avevano costruito la leggenda, proprio i personaggi riprovevoli tante volte incarnati sullo schermo.

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Marco Tullio Giordana

Vi presentiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata nel 2008 alla produzione dal regista Marco Tullio Giordana.

Chi erano Osvaldo Valenti e Luisa Ferida?

Com’è noto, cinque giorni dopo la Liberazione di Milano, vennero trovati in via Poliziano i corpi senza vita di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, giustiziati poche ore prima dai partigiani della Brigata Pasubio. Coppia celebre nella vita oltre che sullo schermo, Valenti e la Ferida erano stati tra i protagonisti del “cinema dei telefoni bianchi” che il fascismo aveva tanto sostenuto. Ma in quelle pellicole rassicuranti e perbeniste avevano sempre recitato la parte dei cattivi, turbando l’Italietta piccolo‐borghese con personaggi che avevano eco anche nella spregiudicatezza della loro vita privata. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, aderirono alla Repubblica Sociale e si spostarono al Nord. Girarono fortunosamente qualche film a Venezia, negli stabilimenti della Giudecca dove Mussolini s’illuse di ricreare i fasti di Cinecittà. Lì cominciò un rapido declino.

Valenti si arruolò nella Xa MAS di Junio Valerio Borghese, dov’ebbe compiti di contrabbando a scopo, diremmo oggi, di autofinanziamento, dato che la Xa era invisa agli stessi fascisti di Salò. Non risulta, come fu detto, che avesse partecipato ad azioni di rastrellamento, ma è vero che per approvvigionarsi di cocaina diventò assiduo di Pietro Koch, sinistro figuro che imperversava a Milano a capo di una polizia parallela responsabile di atrocità di ogni tipo. Proprio nei sotterranei di villa Triste, sede della banda Koch, nacque la leggenda della partecipazione di Valenti alle torture, con la Ferida che danzava discinta per aizzare la foia dei seviziatori. Occorre dire che nessuno dei biografi che si sono occupati della vicenda ha mai trovato testimonianze dirette che avvallassero questa diceria.

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Furono quindi giustiziati senza un processo?

Valenti si consegnò a Pietro “Vero” Marozin, comandante della Brigata Pasubio, proprio per discolparsi da questa accusa. Marozin fu figura molto discussa all’interno della stessa Resistenza. Pragmatico, sbrigativo, abituato a non andare troppo per il sottile. Prese in consegna Valenti e, in un secondo tempo, anche la Ferida. Tentò dapprima uno scambio di prigionieri coi tedeschi, ma la trattativa non diede alcun esito. Vero non eseguì subito l’ordine di fucilarli (lo aveva deciso il CLNAI, Comitato di Liberazione Alta Italia) e li trasferì invece in un cascinale alla periferia di Milano. Forse voleva valutare i margini di un atto di clemenza, forse voleva soltanto prendere tempo. Altre voci ‐ che non sono mai stato in grado di verificare ‐ insinuano che fosse interessato soprattutto ai gioielli della Ferida. Fatto sta che finì per riportarli a Milano e fucilarli la notte fra il 29 e il 30 aprile. Il pomeriggio prima era stata inscenata la “catartica” esibizione dei corpi di Mussolini e della Petacci, appesi a testa in giù insieme ad altri gerarchi a piazzale Loreto. Sandro Pertini disse che quel giorno la Resistenza era “disonorata”, Ferruccio Parri parlò di “macelleria messicana”.

Pensi che fossero innocenti?

Durante la loro breve detenzione nessuno si presentò a scagionarli, nessuno formalizzò un’accusa precisa. Più che contestazioni di fatti, testimonianze precise, furono decisivi altri elementi di natura, direi, leggendaria. Valenti e la Ferida avevano prestato il loro fascino al Regime, aderito a Salò, collaborato coi tedeschi, lucrato al mercato nero. Si erano sempre comportati al di sopra di qualsiasi legge, contraddicendo ogni buonsenso e decenza, perfino orgogliosi della loro dubbia fama. Che lo avessero fatto per narcisismo, leggerezza o voglia di épater le bourgeois, poco importava. Dovevano pagare, dare il buon esempio a tutti. Da questo punto di vista erano bersagli perfetti, “colpevoli” ideali.

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La loro “immagine” cinematografica giocò un ruolo?

La Ferida aveva esordito nel 1935 con Freccia dʹoro, diretto da Corrado DʹErrico e Piero Ballerini, Valenti nel 1928 in Rapsodia ungherese diretto da Hans Schwarz. Cominciarono entrambi da ruoli secondari e quando conquistarono quelli principali, furono quasi sempre ruoli da antagonisti, Valenti relegato al ruolo del villain, la Ferida a quello della fedifraga, dell’amante, della rovinafamiglie o, all’opposto, della vittima di un destino avverso. Il cinema del ventennio non volle o non seppe utilizzare la naturalezza della loro recitazione (ogni tanto doppiati, lui da Augusto Marcacci e Sandro Ruffini, lei da Lydia Simoneschi quand’era santa, da Tina Lattanzi quand’era puttana) che in ruoli, sia pure valorosi, da comprimari. Cosa che spiega in parte la loro andata a Venezia, forse sperando in scritture migliori. Il cinema era allora strumento potentissimo di fascinazione, non escludo che alle dicerie che li rovinarono abbiano contribuito proprio i film che ne fabbricarono la leggenda, proprio i personaggi riprovevoli tante volte incarnati sullo schermo.

Fu Alessandro Blasetti a farli recitare per la prima volta insieme…

Nel ’39, nel film Un’avventura di Salvator Rosa. Valenti nel ruolo del conte Lamberto D’Arco, la Ferida in quello della bella contadina Lucrezia. Il protagonista era Gino Cervi (nel ruolo del titolo) e c’erano molti altri fantastici attori come Rina Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Sacripante, Piero Pastore, tutti allora poco più che trentenni…cast meraviglioso!

Nel tuo film però racconti il loro primo incontro in modo del tutto diverso…

È la prima delle molte libertà che mi sono preso. Occorre fare una premessa: Sanguepazzo non è un film di detection che intende ricostruire “la vera storia di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti”, ma un’opera di fantasia ispirata a vicende e figure reali. Per questo mi sono permesso di interpretare, sintetizzare, tagliare, eludere, aggiungere, inventare. In Sanguepazzo il loro incontro avviene quando Osvaldo è già attore affermato e Luisa ancora una comparsa. Le cose andarono molto diversamente. La vera Ferida aveva cominciato in teatro con Ruggero Ruggeri addirittura nel 1933 ed era già famosa quando incontrò Valenti sul set di Alessandro Blasetti. Ho voluto immaginare una ragazza appena sbarcata a Roma dalla provincia, senz’altre opportunità che la propria bellezza e disinvoltura. Provocata e irritata da Valenti ‐ al quale pure sarebbe pronta a concedersi pur di acchiappare una scrittura ‐ incontra subito dopo Golfiero che, senza nulla volere in cambio, le offre la parte che farà di lei una Diva.

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Parliamo dei tuoi protagonisti principali, entrambi straordinariamente efficaci. Perché hai pensato a Luca Zingaretti e Monica Bellucci per i ruoli di Valenti e Ferida?

Cominciamo da Monica. Ci conosciamo da tanti anni, mi è sempre piaciuta. Per vari motivi abbiamo perso varie volte l’occasione di lavorare insieme. Bellucci ha una personalità forte, volitiva. Incarna un tipo di donna in controtendenza coi modelli imposti attualmente dal consumo. Tutte quelle belle statuine che esistono solo in quanto indicatori della capacità di spesa maschile. La pubblicità ha trasformato le donne in oggetti, le ha rese solo estensioni della bella automobile, del complemento d’arredo fichissimo, della bevanda trendy. L’immagine della loro femminilità, o ninfetta perversa o porcella insaziabile, sembra studiata da gente che le donne vere deve odiarle a morte! Monica, che pure di pubblicità ne ha fatta tanta, riesce sempre a eludere questa mortificazione. Anche quando fa gli occhi da maliarda, c’è in lei qualcosa di materno, protettivo ed esigente insieme. C’è in lei un forte spirito di indipendenza e allo stesso tempo una grande capacità di affidarsi. Insomma, la compagna di lavoro ideale. Come se non bastasse, siamo nati lo stesso giorno e ci capiamo al volo. Ho sempre creduto nelle sue qualità di attrice, generalmente meno sfruttate della sua avvenenza.

In questo film sembra davvero una creatura degli anni ‘30…

Merito ovviamente del costume, delle acconciature, del trucco, ma anche della totale dedizione con cui si è buttata nel progetto. Al punto di acconsentire perfino alla mia richiesta di prendere qualche chilo in più per avere il carnoso turgore delle donne di quel periodo.

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E Luca Zingaretti?

Un attore fantastico. Disciplinato, rigoroso, sempre consapevole di quello che sta facendo, dotato di una tecnica prodigiosa, un controllo della voce, del corpo, che proviene da anni di duro apprendistato. Interpreta un personaggio col quale non ha niente in comune (non si potrebbero immaginare personalità più diverse!) eppure in certe scene Zingaretti è Valenti, perfino negli eccessi e nelle guasconate, perfino nei registri sovracuti che il vero Zingaretti deve detestare, essendo invece uomo riservatissimo e di poche parole. Zingaretti non ha mai cercato di rendere Valenti accattivante, non ha mai avuto paura di risultare “antipatico”. Questo gli ha permesso di dipingere il personaggio come una sorta di figura araldica dell’italiano, o meglio di un certo italiano. Anarcoide, infantile, indisciplinato, furioso, perennemente contro. Non dovrei dirlo io, ma credo che Luca in questo film abbia fatto qualcosa di grande.

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