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Sissako racconta la jihad in Timbuktu, il film in gara per l’Oscar straniero

Già applaudito allo scorso Festival di Cannes e candidato come Miglior Film Straniero ai prossimi Oscar, arriva domani al cinema Timbuktu, il film co-prodotto da Francia e Mauritania che vede la regia di Abderrahmane Sissako  e con un cast formato da Ibrahim Ahmed aka Pino, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara, Hichem Yacoubi, Kettly Noël, Mehdi AG Mohamed, Layla Walet Mohamed, Adel Mahmoud Cherif e Salem Dendou.


Non lontano da Timbuktu, occupata dai fondamentalisti religiosi, in una tenda tra le dune sabbiose vive Kidane, in pace con la moglie Satima, la figlia Toya e il dodicenne Issan, il giovanissimo guardiano della loro mandria di buoi. In paese le persone soffrono sottomesse al regime di terrore imposto dai jihadisti determinati a controllare le loro vite. Musica, risate, sigarette e addirittura il calcio, sono stati vietati. Le donne sono state obbligate a mettere il velo ma conservano la propria dignità.

Ogni giorno una nuova corte improvvisata emette tragiche e assurde sentenze. Kidane e la sua famiglia riescono inizialmente a sottrarsi al caos che incombe su Timbuktu. Ma il loro destino muta improvvisamente quando Kidane uccide accidentalmente Amadou, il pastore che aveva massacrato Gps, il bue della mandria a cui erano più affezionati. Kidane sa che dovrà affrontare la corte e la nuova legge che hanno portato gli invasori.

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Riproponiamo integralmente di seguito l’intervista lasciata dal regista Abderrahmane Sissako.

La storia della jihad che racconta è tragica, una realtà che non si dimentica e comune a molti luoghi. Come ha intuito la potenzialità di questa storia, molto specifica ma allo stesso tempo riconducibile a molteplici situazioni in altre parti del mondo?

Due cose mi hanno colpito in particolare, l’assurdità e la violenza degli atti che i jihadisti hanno commesso quando sono entrati a Timbuktu e soprattutto la lapidazione di quella coppia che è avvenuta proprio a Timbuktu (avvenuta il 29 luglio 2012 ad Aguelhok, ndr.). Ho voluto raccontare subito quella storia per mostrare che in quel luogo e in quel momento quello che stava capitando era assolutamente paradossale. Tutte le cose anomale, non normali vengono spesso taciute, non menzionate. Restiamo in silenzio quando le vittime sembrano così lontane e diverse da noi.

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Timbuktu è una città simbolica e la prova che gli è stata inflitta dall’occupazione jihadista è anch’essa simbolica?

Qualche anno fa (nel 2006) ho girato una sequenza di un film western Bamako, con Denny Glover, questa sequenza è stata girata a Timbuktu che era, in quel periodo, un luogo straordinario di tolleranza e scambi. Giravamo proprio davanti la moschea e nessuno si è sentito minacciato o offeso da questo, di tanto in tanto fermavamo le riprese per lasciare passare le persone che andavano a pregare. È questo il vero Islam ed è per questo che l’occupazione di Timbuktu, da parte di persone provenienti da altri luoghi è simbolica. Timbuktu è un luogo mitologico, tutti ci sentiamo feriti dalla sua occupazione. L’occupazione della città, nel 2012, è durata un anno. Un anno durante il quale tutta la popolazione è stata presa in ostaggio. Un anno durante il quale i media si sono soprattutto focalizzati sugli ostaggi occidentali rapiti in questa parte del mondo.

Lei viene dalla Mauritania ma il film è girato in Mali. L’occupazione jihadista è stata breve. È ritornato a Timbuktu per girare quando si è conclusa l’occupazione?

Quando Timbuktu è stata liberata dalle truppe francesi, sono andato sul posto. Avevo intenzione di rivedere la sceneggiatura, incontrando la gente del posto. Mi avevano consigliato, per esempio, di parlare con una venditrice di pesce che aveva accettato di indossare il velo contro la sua volontà ma aveva osato sfidare gli jihadisti. Loro erano rimasti cosi sorpresi dalla sua reazione che l’avevano lasciata tranquilla. È il genere di personaggio che non si può immaginare scrivendo la sceneggiatura a Parigi. Ho visto anche quelle ragazze stuprate che chiamano vergognosamente “sposate con la forza”. Esattamente come le studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Una di loro, di 19 anni, ha avuto il coraggio di raccontarmi che ogni sera, vedeva arrivare quattro uomini, dei quali non vedeva il viso. Ho raccolto tutte queste testimonianze, con attenzione, cercando di restituirle in modo genuino, pudico, senza amplificarle. A che serve aggiungere qualcosa, la realtà è già di per se cosi terribile. La gente che incontravo parlava poco, voleva lasciarsi tutto alle spalle e passare oltre.

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Avevo intenzione di girare lì, sul posto. Purtroppo c’è stato un attentato suicida davanti alla guarnigione militare. Tre uomini in fuoristrada si sono fatti esplodere dopo essere stati a mangiare tutti insieme una grigliata. Hanno ammazzato due uomini che passavano di li con il carretto. Era estremamente rischioso portare una troupe a Timbuktu, e così ho deciso di spostare le riprese di alcune scene in Mauritania, cercando città simili a Timbuktu, come Oualata. La difficoltà era di portare in quel luogo le persone di etnie che vivevano a Timbuktu e non in Mauritania: i Songhai, i Tuareg, i Bambara, i Peuls… Abbiamo girato per sei settimane, nella tensione. Il luogo delle riprese era cmq in una zona pericolosa. C’erano francesi nella troupe. Eravamo protetti dall’esercito della Mauritania, ma anche se ci dicevano ogni giorno che nessuno sarebbe stato rapito e che la situazione era sotto controllo, non eravamo al riparo da qualche attentato suicida.

Mostra gli jihadisti come esseri ridicoli, fannulloni, falliti, imbecilli, ipocriti, che fumano di nascosto e hanno pulsioni…

Mostro anche che possono essere cortesi: restituiscono gli occhiali e i medicinali all’ostaggio europeo e gli offrono il tè. Un secondo dopo, magari lo decapiteranno… ma racconto anche come possono lapidare e ammazzare una coppia e flagellare una donna perché ha cantato. Ma in ogni gruppo, e quindi anche nel loro, ci sono per forza tutti i tipi di individuo, il cattivo, l’intellettuale o anche un rapper. Tengo molto al personaggio del rapper, un giovane a cui hanno fatto il lavaggio del cervello, e che pensa che quando faceva musica, era nel peccato. Abbiamo saputo poi che l’uomo che ha tagliato la gola all’ostaggio americano James Foley era con ogni probabilità un ex rapper londinese.

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Lei riconosce un elemento di umanità ai jihadisti?

Ogni essere umano è complesso, ha il lato buono e quello cattivo. Un jihadista è come noi, ma la sua vita è cambiata tragicamente. Una persona che usa violenza sugli altri ha anche lui dei dubbi. Per questo io penso che ci sia anche in lui un lato umano

Filma una scena splendida, una partita di calcio senza pallone, l’immaginazione è più forte del divieto?

Si, l’immaginazione è l’ultima arma che rimane a quella gente che ha appena perso ogni riferimento. È tutto ciò che gli rimane, ciò che li mantiene in vita, perché nessuno può ucciderla, è l’ultima speranza. E quando ho immaginato questa scena, l’ho visualizzata esattamente come nel film, poi ha preso una dimensione, una forza che la rende fondamentale all’interno del film, anche grazie al lavoro dell’autore delle musiche.

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La famiglia berbera che ci mostra è molto simpatica e affiatata e il loro modo di vivere è molto piacevole. Ha cercato di farci condividere più profondamente il dramma di queste persone e la loro vita insieme?

Per me era importante raccontare un dramma umano e la vicenda di un uomo che sta per morire e lasciare la figlia orfana.

Quando ha deciso di diventare regista?

Ho deciso molto presto che avrei intrapreso questa professione. Avevo 14 anni e non ero un cinefilo e neanche un amante del cinema, avevo visto veramente pochi film. Mia madre ebbe un figlio prima di me, dal precedente matrimonio e il padre di questo bambino fuggì portandolo via con se. Erano in Algeria e per 25 anni lei non riuscì a rivedere suo figlio. I miei fratelli e le mie sorelle crebbero con il pensiero, con l’idea che questo fratello fosse sparito per sempre. Mia madre parlava di lui tutti i giorni. Noi crescemmo e lui non era con noi. Una volta lo incontrò in Senegal mentre era in macchina. Quando tornò a casa, ci raccontò che l’aveva visto e che l’aveva fotografato. Mi raccontò che egli stava studiando cinema e mi parlava di questo tutti i giorni. Ed è questa la ragione per cui ho iniziato a fare film, per mia madre.

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Che reazioni ha suscitato in Mauritania la nomination all’Oscar?

C’è una grande attesa, è una cosa straordinaria per il popolo della Mauritania ma non solo, è importante per l’Africa, per tutto il continente. Un fatto così coinvolge tutti i paesi dell’Africa dal Senegal al Marocco, perché l’Africa viene vista in modo positivo. Tutti sanno che l’Africa è un continente magnifico, anche se ha dei problemi, ma è un luogo poco conosciuto ai molti, nessuno parla seriamente della sua bellezza e complessità. Ogni volta che qualcuno lo illumina di una luce positiva, questo tocca e commuove le persone.

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