L’uscita nelle sale italiane, posticipata a causa dell’emergenza sanitaria, è confermata: giovedì 3 giugno arriva al cinema Valley Of The Gods, il nuovo film scritto e diretto da Lech Majewski con un grande cast composto da: John Malkovich, Josh Hartnett, Bérénice Marlohe e il protagonista di 2001 Odissea Nello Spazio Keir Dullea. Il film si presenta come un’esperienza visiva ed emotiva inedita. Il maestro polacco torna ad affrontare con questa opera temi a lui cari come l’amore, la perdita, il sogno e ovviamente l’arte.
Il film
Wes Tauros (John Malkovich), l’uomo più ricco sulla terra e collezionista di arte, vive nascosto dal mondo in un misterioso palazzo, conservando un segreto che lo tormenta. John Ecas (Josh Hartnett), dopo una separazione traumatica dalla moglie, inizia a scrivere la biografia di Tauros e accetta un invito nella sua magione. La società del magnate, che estrae uranio, ha deciso di scavare anche nella Valle degli Dei, violando una terra sacra: secondo un’antica leggenda Navajo tra le rocce della Valle sono rinchiusi gli spiriti di antiche divinità.
Leche Majewski
Per addentrarci nelle tematiche del film, vi proponiamo qui sotto un estratto dell’intervista rilasciata dal regista Lech Majewski.
Cosa l’ha spinta a raccontare la storia dell’uomo più ricco del mondo?
Mi sono chiesto come sarebbe un “Citizen Kane” di oggi. La domanda è nata quando stavo scrivendo e producendo il film “Basquiat”. Per preparare il lavoro ho intervistato alcuni dei collezionisti d’arte più importanti degli Stati Uniti, che sono tra gli uomini più ricchi del mondo. Non rimasi colpito dal modo in cui parlavano di Basquiat – per loro era più che altro una merce di scambio, quasi oggetto di speculazione finanziaria – ma dal fatto che la maggior parte di loro era infelice, nonostante le infinite possibilità che avevano. Nulla a che vedere con quella forza e quel calore che senti quando entri in contatto con i Navajo. Ironia della sorte, sembra quasi che le persone povere siano più felici. In Valley of the Gods ho voluto mostrare che l’uomo più ricco della terra che vive in cima a una montagna, in un mondo completamente protetto, una volta che si confronta con la realtà comune può diventare completamente vulnerabile.
La figura dell’artista, qui uno scrittore (Josh Hartnett nei panni di John Ecas), si pone al centro tra due mondi opposti – quello dei Navajo e quello del magnate – quale è il suo ruolo?
John è uno scrittore, ma non ha mai avuto la possibilità di spiccare il volo. Tutto ciò che accade nel film lo vediamo attraverso i suoi occhi e le sue descrizioni. Non sappiamo se ha rappresentato la pura realtà o se l’ha piegata alla sua scrittura. Siamo nella mente dello scrittore, dell’artista, e questa è l’idea alla base del film.
Amore e arte sono temi ricorrenti e sempre intrecciati nelle sue opere. Quanto l’arte è centrale nella sua vita e in particolare quanto lo è l’arte italiana, più volte citata in questo film (dalla Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti alla Fontana di Trevi)?
Io mi sento quasi italiano perché il mio lato artistico è nato a Venezia. Mio zio insegnava al conservatorio di Venezia e io lo andavo a visitare spesso. Così conobbi il Giorgione, Bellini, l’arte veneziana e poi gli artisti fiorentini. Fu amore a prima vista, l’Italia è sempre nei miei pensieri. Quando studiavo per diventare pittore, il momento rivelatorio per me fu alla Galleria dell’Accademia di Venezia davanti alla “Tempesta” del Giorgione, il mio dipinto preferito. In quel momento topico della mia giovinezza dovevo decidere chi sarei diventato; guardando quel dipinto mi ci sono perso dentro e ho avuto la stessa sensazione anche al cinema, durante la scena del parco nel film “Blow Up”. In quel momento ho pensato che se Giorgione fosse stato ancora vivo sarebbe stato Michelangelo Antonioni. Questa fu la scintilla che mi fece lasciare l’accademia d’arte e iscrivere alla scuola di cinema. Quando ero al secondo anno Michelangelo Antonioni visitò la mia scuola. Gli chiesi se quando arrivava sul set si ricordava tutto ciò che doveva fare, oppure se andava a sentimento: lui mi disse che cercava di dimenticare tutto quello che si sarebbe dovuto fare sul set, perché voleva osservare la realtà che gli si presentava in quel preciso istante. E questa fu la più grande lezione di cinema che abbia mai avuto in tutta la mia vita: scoprire ogni cosa e vederla come se fosse per la prima volta.
Definirebbe Valley of the Gods un film sull’amore?
Assolutamente. Valley of the Gods è un film sull’amore, perché tutte le storie raccontano dell’amore o della sua mancanza.
Un altro tema ricorrente è quello della perdita, che la nostra società ha sempre tentato di censurare e nascondere. In questi mesi di pandemia siamo stati costretti ad affrontarla e guardarla in faccia ogni giorno. Qual è il suo pensiero a riguardo, alla luce di ciò che stiamo ancora affrontando?
La nostra civiltà ha allontanato la morte da noi. Ma la morte può essere la nostra migliore amica e consigliera: quando abbiamo dei dubbi su quello che dobbiamo fare nella vita, dovremmo chiedere consiglio alla nostra morte, lì si troverebbe la risposta migliore.