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La crisi del nostro tempo nel Human Flow di Ai Weiwei

Oltre 65 milioni di persone nel mondo sono state costrette a lasciare le proprie case per sfuggire alla carestia, ai cambiamenti climatici e alle guerre. È il più grande esodo umano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Presentato in Concorso alla 74. Mostra di Venezia e al cinema solo dal 2 al 5 ottobre, Human Flow, un film diretto dall’artista di fama mondiale Ai Weiwei, racconta con grande espressività visiva, l’epica migrazione di moltitudini umane, mettendo in scena la sconcertante crisi dei profughi e il suo impatto profondamente umano.


Girato nel corso di un anno carico di eventi drammatici, seguendo la straziante catena di vicissitudini umane,  il film spazia in 23 Paesi tra cui Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico e Turchia. Human Flow è la testimonianza della disperata ricerca, da parte di queste persone,  di un porto sicuro, di un riparo, di una giustizia. Dal sovraffollamento dei campi profughi ai pericoli delle traversate oceaniche fino alle barriere di filo spinato che proteggono le frontiere, i profughi reagiscono al doloroso distacco con coraggio, resistenza  e capacità di adattamento, lasciandosi alle spalle un passato inquietante  per esplorare le potenzialità di un futuro ignoto.

Human Flow è un film puntuale, presentato proprio nel momento in cui la tolleranza, la compassione e la fiducia sono più necessarie che mai. Questa intensa opera cinematografica esprime l’incontrovertibile forza dello spirito umano e pone una delle domande che caratterizzeranno questo secolo: riuscirà la nostra società globale a superare la paura, l’isolamento, gli interessi personali e ad accogliere l’apertura, la libertà e il rispetto dell’umanità?

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Quelle raccontate nel film non sono storie inventate. Questi sono i veri volti umani, tutti pieni di storie di amore, coraggio e della fondamentale battaglia per la sopravvivenza, di un pianeta in movimento e che si ritrova nel bel mezzo di un’emergenza umanitaria. Sono state spese molte parole, negli ultimi anni, da politici ed esperti, sui milioni di rifugiati che scappano dalla guerra, la fame e la persecuzione. Tuttavia, mentre infuria il dibattito su chi e quanti sono, su sicurezza contro responsabilità e se costruire dei muri o dei ponti, la verità delle persone reali, con sogni e bisogni reali, ma intrappolati in un labirinto di incertezze, può venire dimenticata. Già la parola ‘rifugiato’ può generare una distanza, spingendoci a dimenticare che questa storia importante e decisamente attuale non riguarda delle statistiche o delle masse astratte, ma è composta di cuori pulsanti e di vite attive, un flusso di storie individuali piene di colore, eccitazione e dolore, non diverse dalle nostre.

È per questo che l’artista Ai Weiwei mette in primo piano l’umanità dei rifugiati, la loro ricerca delle cose che tutti vogliamo, sicurezza, un riparo, pace, l’opportunità di essere quelli che siamo. Weiwei, allo stesso tempo celebrato, perseguitato e noto per uno spirito da fuorilegge che vuole comunicare direttamente in un mondo di ineguaglianze e ingiustizie, qui reagisce con un atto coraggioso di gentilezza contro la tendenza mondiale alla paura. Tutta la sua carriera è stata contrassegnata dal fatto di opporsi ai confini di ogni tipo e all’unione dell’arte con l’attivismo. E ora, con Human Flow, ancora una volta estende la definizione inclusiva di arte, cercando di modificare il tessuto sociale di cui parla il suo lavoro.

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Weiwei ritiene che la crisi davanti a noi non riguarda soltanto l’impressionante numero di rifugiati che non sanno dove andare, ma anche la tentazione di girarci dall’altra parte, in un periodo storico che richiede qualcosa a ognuno di noi. Per questo, ha deciso di intraprendere un viaggio da solo, un viaggio semplice ma epico, per condividere le vite giornaliere delle persone che fuggono dal caos in ogni angolo del pianeta. Il risultato è un’esperienza cinematografica grande nelle dimensioni, ma decisamente intima per quanto riguarda le emozioni. Un mix fluido di poesia e fatti complessi, risate e avversità, luoghi desolati e bellissimi. Spostandosi attraverso 23 Paesi, Ai si immerge in questa realtà e ci invita a un’esplorazione personale, che consente a tutti gli spettatori di valutare cosa significa condurre una vita molto vulnerabile e riflettere su cosa dobbiamo agli altri.

Human Flow non propone una soluzione. Non è un film politico, anche se tenta di creare un terreno fertile – composto da fatti, testi, letteratura e analisi – che fornisca tanti spunti di riflessione, mentre lo spettatore partecipa al viaggio verso un rifugio sicuro. Tuttavia, l’intenzione è di provocare una scintilla che, assieme ad altre, possa aiutare ad accendere una fiamma, che ci permetta di ripensare alle priorità e riesaminare la nostra capacità di compassione e di trovare soluzioni creative ai problemi. Ci sono molte questioni particolari che devono essere affrontate e che riguardano la crisi dei rifugiati e una domanda è al centro di Human Flow: mentre ci confrontiamo con le atrocità dei conflitti armati, di un clima più sfavorevole e della scarsità di risorse, resisteremo alla tentazione di diventare meno solidali, ragionevoli e generosi o permetteremo al nostro senso di umanità condivisa di prendere il controllo e dirigere le nostre reazioni?

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Ai Weiwei sostiene che “come essere umano, credo che qualsiasi crisi o difficoltà che colpisca un altro essere umano, è come se capitasse a noi. Se non avvertiamo questa fiducia reciproca, siamo decisamente in difficoltà. A quel punto, affronteremo muri, divisioni e inganni da parte dei politici, che ci porteranno a un futuro di oscurità”.

“Come artista, ho sempre creduto all’umanità e vedo questa crisi come la mia crisi”.

Ai Weiwei

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