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Lazzaro Felice, la fiaba (e la bontà) umana di Alice Rohrwacher

Dopo aver vinto il premio per la Miglior Sceneggiatura al 71° Festival del Cinema di Cannes, giovedì 31 maggio arriva nelle sale Lazzaro Felice, il nuovo film scritto e diretto da Alice Rohrwacher ed interpretato da Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Sergi Lopez, Tommaso Ragno, Natalino Balasso e Nicoletta Braschi.

Il film

Quella di Lazzaro (Adriano Tardiolo), un contadino che non ha ancora vent’anni ed è talmente buono da poter sembrare stupido, e Tancredi (Luca Chikovani), giovane come lui, ma viziato dalla sua immaginazione, è la storia di un’amicizia. Un’amicizia che nasce vera, nel bel mezzo di trame segrete e bugie. Un’amicizia che, luminosa e giovane, è la prima, per Lazzaro. E attraverserà intatta il tempo che passa e le conseguenze dirompenti della fine di un Grande Inganno, portando Lazzaro nella città, enorme e vuota, alla ricerca di Tancredi.

Conosciamo il film attraverso altre parole di Alice Rohrwacher, suddivise per temi.

Credere nella bontà

Lazzaro Felice è la storia di una piccola santità senza miracoli, senza poteri o superpoteri, senza effetti speciali: la santità dello stare al mondo e di non pensare male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani. Racconta la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta e li interroga come qualcosa che poteva essere e non abbiamo voluto”.

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Buoni, santi, perdenti. Lazzari

Attraversando il mio paese e il mio tempo ho spesso incontrato dei Lazzari felici, persone che chiamerei buone, ma che il più delle volte non si dedicano a fare il bene, perché non sanno cosa sia fare il bene. Loro sono, e quello che sono fa sì che restino nell’ombra, perché, dove possono, abdicano sempre a se stessi per lasciare spazio agli altri, per non disturbare. Non possono emergere, o meglio non sanno neppure che “emergere” sia possibile. Sono quelli che finiscono i lavori sgradevoli e pesanti che l’umanità si lascia alle spalle, rimediano a tutto quello che gli altri distrattamente calpestano, senza che nessuno se ne accorga”.

Ma succede a volte che, inaspettatamente (e certamente per errore!), uno di questi Lazzari entri nella storia: il più delle volte qualcuno, un passante, un commesso di un negozio, un giovane rampante o un vecchio pensionato, insomma qualcuno all’improvviso lo nota per la prima volta, lo guarda con sospetto, forse fraintendendo un suo gesto, e si mette a gridargli contro. Perché sì, i nostri Lazzari hanno una camminata troppo strana, troppo silenzio intorno alle parole, e allora la paura divora chi li incontra. Il nostro Lazzaro di turno non sa ribattere alle false accuse: guarda con occhi increduli, mentre la gente lo acchiappa, lo morde, lo caccia”.

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Una religione dell’umano

Libri e film raccontano largamente il destino degli eroi che si ribellano e lottano contro le ingiustizie, che si trasformano e si impongono: vogliono cambiare il mondo! Lazzaro invece non può cambiare il mondo: la sua santità non può essere riconosciuta. I santi, come ce li immaginiamo, devono avere forza, carisma, devono imporsi. Ma io non credo che la santità sia carisma. Credo invece che se un santo apparisse oggi, con il suo insostenibile richiamo ad un modo altro di esistere, se comparisse nelle nostre vite moderne forse non lo riconosceremmo neanche o lo faremmo fuori, senza tanto pensarci. Parliamo di una religione dell’umano, e non di una religione ufficiale e ben amministrata, con i suoi vestiti sgargianti e regole settimanali. Questo tipo di santo è un folle prima di diventare pazzo, è uno stupido prima di essere tonto, è colui che è intatto, che è sempre uguale a sé stesso mentre il mondo si affanna a cambiare, o, forse, a fingere di cambiare. Un cambiamento più simile a quello di un abito, che una mutazione profonda, interiore”.

Passare dal medioevo al medioevo

Attraverso le avventure di Lazzaro, volevo raccontare nel modo più lieve possibile, con amore e umore, la tragedia che ha devastato il mio paese, il passaggio cioè da un medioevo materiale ad un medioevo umano: la fine della civiltà contadina, la migrazione ai bordi della città di migliaia di persone che non sapevano nulla della modernità, la loro rinuncia al poco per avere ancora meno. Un mondo di polverosi sfruttamenti che finisce, e si trasforma in altri sfruttamenti più nuovi e lucidi, più attraenti. Lazzaro, senza saperlo, viaggia nel tempo, e interroga le immagini del presente come un enigma, con i suoi occhi accoglienti e spalancati. Perché viaggiare nel tempo? Piegare le pagine della storia e vedere una a fianco all’altra epoche così contraddittorie eppure simili: è sempre stato un mio desiderio, quando ero a scuola, scuotere il libro e mischiare le carte, e in qualche modo il cinema lo rende possibile”.

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L’origine della storia

Per costruire la storia sono partita da un fatto reale che mi ha colpita: riguarda la vicenda di una Marchesa del centro Italia che, approfittando dell’isolamento di alcune sue proprietà, aveva mantenuto i suoi contadini all’oscuro della fine della mezzadria. Quando finalmente per legge tutti gli accordi mezzadrili ancora in corso, nel 1982, furono convertiti in contratti di affitto o lavoro salariato, la nostra Marchesa fece finta di niente”.

Per qualche anno insomma i suoi contadini continuarono a vivere in una condizione semi-servile mentre l’abolizione della mezzadria trasformava secoli (millenni?) di sfruttamento in veri contratti tra pari, regolati dalle leggi di Stato: un passaggio epocale che mutava secoli di sudditanza in una scelta voluta e negoziabile. Mi ha sempre fatto una struggente tenerezza la storia di questi contadini che arrivarono in ritardo a questo appuntamento con la storia, e che restarono tagliati fuori da una trasformazione, raccogliendo solo i resti di quel passaggio fragoroso. Un trafiletto di cronaca da dimenticare la mattina dopo, ma che loro hanno conservato gelosamente appeso ad un muro, ad ingiallire, unica testimonianza di un mondo che si è sfasciato, e li ha lasciati indietro. Il Grande Inganno!”.

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Una fiaba realissima

In Lazzaro Felice ancora più che nei film precedenti abbiamo voluto sperimentare la fiaba, con tutte le sue incoerenze, i suoi misteri, i suoi ritorni straordinari e i suoi personaggi buoni e cattivi. La fiaba e il suo simbolismo, inteso non come astrazione eterea o promessa di avventure sovraumane e nebulose, ma come gancio tra la realtà e un altro strato dell’essere: è dalla vita che nascono i simboli, in maniera così profonda e dettagliata che diventano la vita di tutti, la vita di un paese, l’Italia, nella sua trasformazione. La storia, è sempre la stessa: la storia della rinascita, dell’araba fenice, dell’innocenza che nonostante tutto e tutti torna a visitarci, a struggerci”.

“Lazzaro Felice è un manifesto politico, è una fiaba sulla storia d’Italia degli ultimi cinquant’anni, è una canzone”.

Alice Rohrwacher

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