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Cameralook Violento, dall’Arancia a Orologeria ai Giochi Divertenti

Era il 2007 quando Michael Haneke, su invito del produttore Chris Cohen, girò Funny Games U.S., il remake americano – inquadratura per inquadratura – della prima edizione austriaca del film, che lo stesso regista realizzò esattamente 10 anni prima. Per lanciare al meglio il film verso il pubblico statunitense, il maggior consumatore di violenza al cinema, venne fatto girare un trailer che proponeva un paragone (o comunque un riferimento) con Arancia Meccanica, il capolavoro sicuramente più discusso e controverso di Stanley Kubrick che uscì nel 1971.

Il tema che lega i due film è quello della violenza gratuita. Quella perpetrata come mestiere, picchio ergo sum, per divertimento, per gioco, per colmare il vuoto dell’esistenza. Esattamente quello che fanno Alex e i Drughi nella prima parte di A Clockwork Orange, e quello che fanno invece dall’inizio alla fine Peter e Paul nei Funny Games. Il collegamento si riferisce in particolare all’incursione di DeLarge e soci nella casa dello scrittore, sopra alle note di Singin’ in the rain. I vestiti candidi, le buone maniere per entrare a tradimento, la violenza efferata e devastante.

Kubrick mentre filma la sequenza dell'incursione a casa dello scrittore

Kubrick mentre filma la sequenza dell’incursione a casa dello scrittore

Si tratta di storie diverse: se il racconto di Anthony Burgess, Un’arancia a orologeria (scritto senza troppo successo nel 1963 e che Kubrick non ritoccò quasi per niente), ambientato in una futuristica società, si instradava ben presto nella fantapolitica e nella ancor più brutale cura Ludovico per redimere Alex, i film di Haneke sono delle riflessioni profonde – delle vere e proprie tesi – sul consumo della violenza stessa nella società. Una critica alla famiglia borghese moderna e al suo rapporto con i media, totalmente assuefatta dalla visione di immagini raccapriccianti alla tv e al cinema, sempre – però – ad una distanza di sicurezza. Due film crudeli che non lasciano scampo a chi guarda.

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Malcolm McDowell al centro dei Drughi

Il disagio che proviamo è lo stesso, quello che cambia è la modalità della rappresentazione della violenza. Kubrick la coreografa in un balletto, utilizzando volutamente la musica classica di Beethoven (la nona sinfonia) e Gioacchino Rossini (l’overture de La Gazzaladra) e la già citata canzone di Gene Kelly, con una messinscena che sfonda nella pop art con tinte fumettistiche; Haneke la colonna sonora la usa solo nei titoli di testa e di coda, poi lascia spazio a lunghi piani sequenza, con un taglio documentaristico, che però nega la visione proprio quando la violenza si concretizza, lasciando tutto all’immaginazione dello spettatore.

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Il cameralook di Arno Frisch in “Funny Games” (1997)

Quello che a livello visivo però unisce entrambi i film è proprio il Cameralook, lo sguardo in macchina dei protagonisti che interpellano lo spettatore rendendolo complice e colpevole. Una strategia devastante che ci disturba. Sì, ma fino a quanto? Se nel 1971 in Gran Bretagna al film seguirono davvero stupri, omicidi, rapine e atti di violenza (Kubrick, minacciato di morte, fu costretto a ritirare la pellicola dai cinema inglesi), nel 1997 e nel 2007 non seguirono direttamente fatti di cronaca legati a Funny Games.

Naomi Watts e Tim Roth che stanno per essere aggrediti da Peter e Paul

Naomi Watts e Tim Roth che stanno per essere aggrediti da Peter e Paul

Questo perché negli anni la società è cambiata sensibilmente, sempre più abituata a guardare contenuti violenti attraverso i media di massa. Tanto da non saper quasi più distinguere realtà da finzione. E ancor di più, nel decennio tra l’originale e il remake di Haneke, è arrivato Internet. Con il rischio di raggiungere chiunque, sempre e ovunque. Anche tutte quelle personalità fragili più a rischio, che possono identificarsi con i personaggi della storia. Non solo Identificazione ma soprattutto Proiezione, ovvero quel  processo psichico simmetrico con il quale lo spettatore interiorizza i sentimenti dei personaggi e li arricchisce di emozioni che sono solamente sue. Il rischio è quello di un aumento dell’aggressività e di una vera e propria imitazione della violenza.

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Uno dei diversi sguardi in macchina di Michael Pitt

Resta difficile, in questo mondo in cui ci si ammazza-violenta di continuo, stabilire fin dove arriva la responsabilità di un regista che ci mostra questo tipo di immagini. Ogni intento, anche etico ed educativo, si perde dietro alle immagini di un film. Che arrivano ovunque, veloci, e raggiungono chiunque. A quel punto sta a noi, con il nostro background e la nostra educazione, guardarci in faccia allo specchio e capire chi siamo davvero.

Giacomo Aricò

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