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Amore, Morte e Diavolo: Fatih Akin chiude la trilogia con Il Padre

Presentato alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia e dopo l’anteprima della scorsa settimana, giovedì 9 aprile arriva nelle nostre sale Il Padre (The Cut) , l’ultimo lavoro di Fatih Akin che si può inquadrare sia come opera epica, sia come dramma, sia come film d’avventura, sia come un western. Pur essendo ambientato nel secolo scorso, il film non potrebbe essere più attuale: racconta una storia di guerra e migrazione, e rappresenta il potere di amore e speranza, che permette di raggiungere obiettivi impensabili.

Il Padre è la conclusione della trilogia sull’Amore, la Morte e il Diavolo di Fatih Akin. Con La Sposa Turca (2004) assistiamo alla lotta disperata di una giovane donna turco-tedesca decisa a vivere la propria vita, che scopre quanto velocemente l’amore possa trasformarsi in dolore. Ai Confini del Paradiso (2007) è la storia di sei persone le cui strade si incrociano senza che loro si incontrino mai; sarà la morte a riunirli alla fine. Il Padre esplora il tema del “diavolo”, esaminando il male e la sofferenza che siamo in grado di infliggere al prossimo, inconsapevolmente o di proposito, mostrando il sottile confine che separa il bene dal male.

La storia inizia a Mardin, nel 1915, di notte. La polizia turca rastrella tutti gli uomini armeni della città, compreso il giovane fabbro Nazaret Manoogian, separandolo dalla sua famiglia. Anni dopo, sopravvissuto agli orrori del genocidio, Nazaret riceve la notizia che anche le sue due figlie sono ancora vive. Ossessionato dall’idea di ritrovarle si mette sulle loro tracce. La sua ricerca lo conduce dai deserti della Mesopotamia all’Avana, fino ad arrivare alle praterie aride e desolate del Nord Dakota. Nel corso della sua odissea incontra una serie di personaggi molto diversi fra loro: figure angeliche e generose, ma anche l’incarnazione del diavolo.

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Vi proponiamo di seguito l’intervista che il regista Fatih Akin ha rilasciato a Özlem Topçu e Volker Behrens.

Ci sono molti eventi su cui varrebbe la pena fare un film. Quello che più di tutti rappresenta un tabù in Turchia è senza dubbio il genocidio degli armeni. Perché ha scelto questo tema per il suo nuovo film Il Padre?

Non sono stato io a scegliere il tema, ma è stato il tema a scegliere me. I miei genitori sono turchi, perciò si tratta di un argomento che mi interessa, e soprattutto il fatto che sia tabù. Una cosa proibita cattura sempre la mia attenzione e mi spinge a saperne di più, a prescindere da quale sia l’argomento. Ho scoperto molti temi che non sono ancora stati affrontati e risolti.

Quanto può essere ancora considerato tabù questo tema in Turchia oggi?

Se avessi parlato del genocidio in un pub di Istanbul quando sette anni fa è stato ucciso Hrant Dink, le persone al tavolo di fianco avrebbero potuto intervenire e chiedere: “Ehi, cosa stai dicendo tu?” In molti posti, oggi, se ne può parlare senza bisogno di sussurrare.

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Non esiste forse altra parola in turco che abbia una valenza politica più forte di “soykırım”, genocidio. Usa questa parola quando si trova in Turchia?

Sì. A darmi il coraggio di farlo è stato un libro del noto giornalista turco Hasan Cemal: “1915: Ermeni soykırımı” (1915: Il genocidio armeno). Se il nipote di Cemal Paşa, uno dei gerarchi militari responsabili dello sterminio durante la Prima Guerra Mondiale, ha dato quel titolo al suo libro, allora anch’io posso usare quella parola. Tutte le librerie hanno venduto quel libro. Era esposto nelle vetrine!

Perché pensa che sia ancora così difficile per i turchi confrontarsi con questa parte della loro storia?

Se la popolazione di un intero paese subisce sistematicamente le menzogne degli storici e dei governi, se generazione dopo generazione si sente ripetere: “E’ una bugia. Non è successo davvero”, allora non può che interiorizzarlo, ed è questo che è accaduto alla maggior parte delle persone in Turchia. I genitori, i libri di scuola e i giornali non avevano mai dato loro una versione diversa dei fatti. Per questo non posso rimproverarli. Ma non sono d’accordo con i politici che affermano che dovremmo lasciare la storia agli storici. La storia è nostra, è della gente, appartiene a tutti.

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Il protagonista Nazaret vive a Mardin. Per quale motivo ha scelto proprio questa città?

Avevo letto il libro dello storico francese Yves Ternon sugli armeni di Mardin. La città non è lontana dal confine siriano, perciò geograficamente, e in funzione della trama, aveva senso far partire il calvario di Nazaret proprio da lì: doveva essere vicino al deserto. Così ho deciso che non sarebbe stato uno degli armeni deportati a Deir Zor.

La città apparteneva all’Impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale ed era una delle principali destinazioni delle deportazioni…

Ho deciso che lui sarebbe stato uno degli armeni deportati in uno dei campi più piccoli: Ras al-Ayn. Gli armeni originari di posti come Mardin, Diyarbakir e Midyat venivano trasferiti a Ras al-Ayn. Abbiamo calcolato che per raggiungerlo da Mardin sarebbero serviti pochi giorni. E così questo è stato il percorso del nostro protagonista. Prima di iniziare le riprese, abbiamo affrontato il tragitto in  macchina per verificarlo. E’ stato sei mesi prima dell’esplosione della guerra civile in Siria. Ci aggiravamo come archeologi, sempre pronti a prendere appunti, cercando di riconoscere i luoghi di cui avevamo letto nei documenti storici. Gli abitanti di Ras al-Ayn non sapevano dove fosse collocato il campo di sterminio armeno. Nemmeno gli armeni che vivevano là ne erano a conoscenza. Non c’è una targa per commemorare ciò che è avvenuto in quel luogo, diversamente da Deir Zor. Perciò, mentre eravamo là, abbiamo deciso di telefonare a Wolfgang Gust che è stata la nostra fonte principale.

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Eravate consapevoli del ruolo dell’Impero germanico nel genocidio? Il fatto che la Germania sapesse ciò che i loro alleati ottomani avevano intenzione di fare agli armeni, ma avesse deciso di non intervenire per ragioni strategiche. L’Impero germanico non poteva permettersi di perdere l’appoggio degli Ottomani. 

Sì, esattamente. L’Impero germanico era a conoscenza dei massacri e delle atrocità, ma non intervenne. I tedeschi non volevano rischiare per nessuna ragione di perdere gli Ottomani come “compagni d’armi”. E’ per questo che non hanno fatto nulla per cercare di ostacolare il leader turchi. I tedeschi sono stati quantomeno complici. La misura in cui i tedeschi abbiano partecipato attivamente ai massacri o li abbiano resi possibili dal punto di vista logistico è ancora oggetto di indagini.

Il Padre deve essere considerato un film sul genocidio degli armeni?

Racconto la storia di un padre che viaggia per il mondo alla ricerca delle sue due figlie. E’ un western: il padre viaggia verso ovest fino a quando non raggiunge gli Stati Uniti. E’ una storia di emigrazione e immigrazione. Sullo sfondo del racconto c’è il genocidio, ma non è un film sul genocidio. Non sono un politico e con il mio film non cerco di trasmettere un messaggio politico. Ho preso degli eventi storici traumatici, che devono ancora essere analizzati e affrontati fino in fondo, e li ho integrati in una storia. Nel film la linea di confine tra il bene e il male non è sempre ben distinta. Il protagonista per esempio, l’armeno Nazaret, passa dall’essere vittima a carnefice. E sopravvive solo grazie alla compassione e pietà di un turco.

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Questo film è la conclusione della sua trilogia sull’Amore, la Morte e il Diavolo. Quanto è stato difficile trovare un “diavolo”? 

Per me era chiaro che c’è un diavolo in ognuno di noi e per ritrarlo non hai bisogno di fare un horror o di un film sul satanismo. Gli esseri umani sono in grado di amare, come vediamo in La Sposa Turca. Nel film Ai Confini del Paradiso, la morte innesca una metamorfosi. Il Padre affronta l’omicidio di massa e la paura di confrontarsi con esso. Originariamente è un’ansia esistenziale che inizia nel momento in cui si taglia il cordone ombelicale. La gente potrebbe pensare che questo film vada in una direzione diversa dalle prime due parti della trilogia, perché analizza un altro tema e non si concentra sul rapporto turco-tedesco. Ma ogni film di fatto è la prosecuzione del precedente. Vedo dei parallelismi in tutti e tre i film. Cahit, Nejat e Nazaret sono come tre fratelli, che osservano attentamente il mondo intorno a loro e perseguono i propri obiettivi.

Come pensa che sarà recepito il suo film in Turchia?

Due miei amici, entrambi produttori cinematografici turchi, hanno visto il film. Uno ha detto: “Ti tireranno le pietre”. L’altro ha dichiarato: “No, ti tireranno fiori”. Ultimamente penso che ci sarà un po’ di entrambe le cose: pistole e rose.

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