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CAMERA RETRO – Sessant’anni dopo, La Finestra sul Cortile di Alfred Hitchcock, un film sul cinema

Un incidente di lavoro ha costretto il fotoreporter L.B. Jeffries, abituato a vivere alla giornata, a rimanere nel suo appartamento, inchiodato su una sedia a rotelle con la gamba ingessata. Approfittando della torrida estate newyorkese, che fa tenere le finestre spalancate, si diletta a sbirciare nelle case dei numerosi vicini. Dentro quell’ alveare, che fermenta senza tregua, l’attenzione del suo innocuo passatempo si focalizza su un rappresentante di gioielli, suo dirimpettaio, la cui moglie scompare improvvisamente.

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Da buon cittadino zelante, Jeffries si sente in dovere di risolvere il mistero, supportato dall’amante modaiola, deriso da uno scettico investigatore, suo amico di vecchia data e pungolato da una cinica infermiera. All’interno del gigantesco set, costruito da capo a piedi negli studios hollywoodiani, si respira a pieni polmoni l’atmosfera cittadina dell’America anni ’50, con un tocco di Western nei tramonti che si scorgono oltre i tetti. Un teatro di posa dove i condomini sembrano marionette barcollanti, sull’orlo di una crisi di nervi.

Dall’altra parte del cortile, Jeffries, da perfetto voyeaur, ammicca, giudica e si diverte, restando nella penombra, armato solo di binocolo e teleobbiettivo. Il possibile omicidio in casa Thorwald non è che un pretesto in più per restare sveglio la notte, a guardia della sua stessa maniacale passione che gli fa scrutare il privato degli altri per fuggire dal proprio. James Stewart, memore dei cowboys da lui interpretati nei tre anni precedenti alla pellicola in questione, è di una naturalezza disarmante nei panni del fotografo dallo stomaco poco delicato e giramondo, opposto ad un’elegantissima ed eterea Grace Kelly, fascinosa diva a colori, come fu la Garbo in bianco e nero.

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Non c’è finestra che tenga: per il voyeaur tutte sono buone, soprattutto quelle aperte, e nascondono al loro interno storie normali e folli al tempo stesso. Ma ironicamente ciò che accumuna gli inquilini del caseggiato che Jeffries (James Stewart) osserva con tanta passione è l’amore: nobile sentimento, che anch’egli prova per Lisa (Grace Kelly) ma che, scapestrato com’è, non riesce ad accettare. Lo allontana con battute di spirito pungenti e intrise di sarcasmo cattivo, quasi moraleggiante. Con la stessa abnegazione fissa gli occhi su chi, l’amore, lo ha provato, lo prova o spera che un giorno potrà provarlo, tenendosene comunque a (in)debita distanza. Jeffries non osa mai parlare con i vicini.

Dagli eventi della pellicola, si intuisce addirittura che lui ne conosca a malapena il nome: da guardone doc mette in atto spiate degne di un film ambientato nella Guerra Fredda, con binocolo e teleobbiettivo, guarda caso, da lui stesso definiti come “ferri del mestiere”. La prima volta in cui parla al presunto omicida, lo fa attraverso un biglietto anonimo e poi attraverso la cornetta, sempre senza identificarsi. A causa di questa voragine panoramica tra lui e i suoi dirimpettai, La Finestra Sul Cortile è stata definita da Truffaut (e non solo) un film sul cinema. Dove lo spettatore attua a meraviglia l’identificazione secondaria, descritta da Metz, per cui si sente catapultato nella pellicola, nei panni del protagonista che, comodamente seduto sulla sedia a rotelle (dicesi anche poltrona nel tranquillo salotto di casa), si gode gli exploit dei vicini, compreso un morto e un assassino a piede libero.

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Praticamente il sogno recondito, a detta del Maestro inglese, di ogni voyeaur che voglia essere chiamato tale. Ma se è vero che i telai delle finestre aperte riproducono alla perfezione anche i contorni di una televisione, allora, come giustamente notato dallo stesso Farinotti, Jeffries si troverebbe di fronte a tanti schermi e, pur senza telecomando, potrebbe vedere ciò che più gli aggrada. In questo senso, il film di Hitchcock risulta essere profetico. Fu prodotto nel 1954, all’alba del Boom economico, proprio quando la Tv stava cominciando a diventare patrimonio dell’umanità (occidentale), scalzando il più “antico” grande schermo.

Il Maestro del brivido sembra aver colto questa contrapposizione e il fascino televisivo, che non approfondisce i suoi contenuti ma che li fa solo supporre, avvolgendoli in una strana aurea di superficialità repressa e di psicologia spicciola. Allo stesso modo, i personaggi che popolano il caseggiato che si affaccia sul cortile, sono riconoscibili attraverso lati caratteriali ben delineati, come se ognuno di loro avesse un ruolo preciso nel divertire chi li guarda: “cuore solitario”, il cui nomignolo è tutto un programma (per un sabato sera andato male), la provocante e fugace ballerina classica, i due anziani che trattano il cane come un figlio, il pianista ubriacone, l’artista e, infine, Lars Thorwald, professione rappresentante e presunto uxoricida.

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Interpretato da un gigantesco (in senso artistico) Raymond Burr, che da lì a tre anni troverà la fama mondiale nei panni di Perry Mason, Thorwald è l’oggetto del desiderio visivo di Jeffries, al quale vengono fatti balenare, davanti agli occhi, coltelli, corde, gioielli femminili e una donna, forse malata, che appare e scompare nel nulla. Ma la cosa più terrificante del film, psicologicamete parlando, è l’idea, lanciata con una sola battuta in tutta la sceneggiatura, che il protagonista (e quindi lo spettatore, stando all’identificazione sopra citata) possa essere osservato dai suoi stessi vicini, esattamente come lui fa con loro. Risultato: anche il guardone non è immune da sguardi maliziosi e non è libero di muoversi indisturbato in casa propria.

Una paura che si materializza alla fine della pellicola, quando Thorwald scopre che è stato Jeffries (con la sua bella) ad incastrarlo e lo va a trovare, per rendergli la mercede che si merita. Ecco spiegato il motivo per cui la suspense si alza quando, nel buio, si sentono i passi dell’assassino che sale le scale, per andare dal voyeaur inerme.

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Lo spettatore, che dopo quasi due ore di film è già diventato guardone, freme nei panni di James Stewart con la gamba rotta, pur conservando un retaggio del proprio profondo senso di giustizia (magari condiviso anche da Jeffries), secondo il quale anche Thorwald non ha tutti i torti ad essere incavolato nero, perché da carnefice è stato degradato a vittima di uno spione, che gli ha rotto le uova nel paniere e gli ha distrutto il sogno di una vita da passare con la sua amante.

Tommaso Montagna

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