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Fellini c’incanta, Sorrentino cinquanta

Domenica 31 maggio 2020 Paolo Sorrentino compie cinquant’anni e l’unica cosa che possiamo dare, davvero, per certa con lui è che da almeno venti è regista. Che sia un genio assoluto o un raffinatissimo cialtrone (chi non si è mai fatto questa domanda uscendo dalla proiezione di un suo film?), che “ci sia” o “ci faccia” (chi non si è mai fatto questa domanda vedendolo durante un’intervista?), è innegabile che un qualche talento, questo napoletano dall’aria perennemente stropicciata e sorniona, ce l’abbia, fosse anche solo quello di prendere tutti quanti costantemente in giro. Sembra anche tenerci parecchio a mantenere questa ambiguità, quando racconta di aver iniziato a fare cinema perché pensava che fosse “il rifugio dei dilettanti”, un qualcosa per cui non servisse granché di tecnica preliminare, al contrario di saper suonare la chitarra o giocare a calcio.

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La sua storia, però, dice anche altro: nel 1997 vince il premio Solinas per la sceneggiatura e nel 1998 realizza il cortometraggio che dà avvio alla collaborazione con la Indigo film, che da lì in poi produrrà tutti i suoi lavori, dal primo, nel 2001, L’Uomo In Più, fino al mastodontico Loro, in cui trasforma Toni Servillo in Berlusconi, del 2018. E in mezzo tantissimi riconoscimenti per i suoi 8 lungometraggi, e la finale del premio Strega per lo strepitoso romanzo Hanno Tutti Ragione del 2010.

Nel 2016 Sky, HBO e Canal + gli danno anche carta bianca per una serie sul Papa, The Young Pope, a cui fa seguito nel 2020 The New Pope, entrambe con un cast stellare, e che dovrebbe essere conclusa da un terzo capitolo, a data da destinarsi. In occasione del suo cinquantesimo compleanno, il magazine Vanity Fair lo nomina direttore per un numero, che il regista ha inteso come un correlativo cartaceo del suo film più famoso, quello che gli è valso l’Oscar al miglior film straniero nel 2014, La Grande Bellezza… pandemia edition.

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Cantanti in piena decadenza e piccoli malfattori, grandi politici, alti prelati, viveur romani: dei personaggi (molti dei quali resi iconici dalle interpretazioni di Toni Servillo, suo attore feticcio), gli interessa il punto oscuro, la voragine che si apre, il fallimento, raccontare, come direbbe lui, “le discese, anziché le ascese”. E raccontarle a modo suo, calandoli in un mondo kitsch e grottesco, sovrabbondante, barocchesco, perché – sembra dirci echeggiando il Gran Lombardo – se barocco è il mondo, qualcuno dovrà pure ritrarne la baroccaggine.

Però senza mai farne un grande dramma, senza correre il rischio di prendersi troppo sul serio. In fondo – come fa dire al suo Jep Gambardella nel finale de La Grande Bellezza, che se da un lato avrebbe voluto essere il manifesto del non prendersi troppo sul serio, è finito per essere icona di tutto il contrario – è solo un trucco.

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Osteggiato da una parte di critica e pubblico e altrettanto adorato da altri  – all’indomani dell’Oscar, il clima era quello di un derby – per gli stessi motivi, le sceneggiature, firmate spesso in tandem con Umberto Contarello, zeppe di frase sentenziose e affollate di personaggi improbabili, i movimenti di macchina che oscillano tra virtuosismo e maniera, i contrasti di luci, di musiche, e di momenti sublimi e divertissement al limite della beffa (quei fenicotteri in computer graphic qualcuno non glieli perdonerà mai…) in fondo Sorrentino è nient’altro che uno a cui piace mischiare Scorsese e Maradona, i Talking Heads e Fellini. E anche qualche altro migliaio di citazioni dichiarate o presunte, in un gioco di scarto continuo dello spettatore, chiamato a calarsi nell’andamento ondivago del suo realismo visionario.

Ironia della sorte, l’ennesima analogia con Fellini, al quale è stato spesso accomunato, più spesso dai detrattori (O dimidiate Fellini!) è un dato di fatto incontrovertibile: se Sorrentino compie quest’anno cinquant’anni, il maestro Federico ne avrebbe compiuti cento. Insomma, eccolo, il Fellini a metà. 

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Penso che in ogni caso la prenderebbe con ironia, perché come ama ricordare, questo è l’unico modo di stare al mondo e, soprattutto, come fa dire a Servillo-Andreotti nel Divo, l’ironia è la migliore cura per non morire e le cure per non morire sono sempre atroci.

Giulia Marziali

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