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Inganni e segreti svelati ne Il Figlio di Hamas, il docu-thriller di Nadav Schirman

Ambientato nel caotico scenario della crisi in Medio Oriente, arriverà domani nelle nostre sale Il Figlio di Hamas – The Green Prince il film scritto e diretto da Nadav Schirman che ripercorre i dettagli dell’alleanza senza precedenti tra due nemici giurati. Con lo stile di un avvincente thriller psicologico, il documentario racconta la storia vera del figlio di un leader di Hamas diventato uno dei più preziosi informatori dell’intelligence israeliana, e dell’agente dello Shin Bet che ha rischiato la sua carriera per proteggerlo.


Cresciuto in Palestina, da adolescente Mosab Hassan Yousef sviluppa una scontata avversione nei confronti di Israele che, da ultimo, lo conduce in prigione. Qui, colpito dalla brutalità di Hamas e spinto dal disgusto per i metodi del gruppo – in particolare gli attentati suicidi – Mosab matura una “conversione” inaspettata, iniziando a vedere in Hamas un problema, non una soluzione. Reclutato dallo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna d’Israele) col nome in codice di “Green Prince”, per oltre un decennio spia dall’interno l’elite di Hamas, rischiando la vita e facendo i conti con la sensazione di tradire il suo popolo e la sua stessa famiglia. Nel tempo, il rapporto tra Mosab e il suo referente allo Shin Bet, Gonen Ben Yitzhak, si fa sempre più leale. Una lealtà che nessuno avrebbe potuto immaginare.

Basato su Figlio di Hamas, il best-seller di Mosab Hassan Yousef, il film rivela un mondo complesso fatto di terrore, inganno, e scelte impossibili e fa luce – attraverso testimonianze dirette, sequenze drammatiche e rari materiali d’archivio – su decenni di segreti, raccontando una profonda amicizia e rimettendo in discussione molto di quanto crediamo di sapere sul conflitto israelo-palestinese.

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Vi presentiamo qui sotto l’intervista integrale rilasciata dal regista Nadav Schirman che per questo film ha vinto il Premio del Pubblico – World Cinema Documentary al Sundance Film Festival 2014.

Cosa l’ha spinta a fare questo film?

Quando sono venuto a conoscenza della storia di Mosab, sono rimasto subito colpito dal suo punto di vista su Hamas, dall’interno. Come organizzazione perlopiù sconosciuta al mondo, i suoi meccanismi non erano mai stati rivelati, e questo mi affascinava. Poi ho conosciuto Gonen, il suo referente israeliano, e quando ho capito la natura particolare del loro rapporto ho sentito di doverlo raccontare in un film: entrambi i protagonisti hanno rischiato la vita per fare la cosa giusta, entrambi sono guidati da una sorta di “bussola morale” e – cosa molto rara nello scenario del conflitto israelo-palestinese – non hanno paura di andare controcorrente. Ho trovato il loro legame così pieno di speranza: ecco cosa succede quando la gente si fida e si batte contro i pregiudizi! E poi, ovviamente, la storia aveva anche tutti gli ingredienti di un vero thriller.

Di cosa parla il film?

Il film è basato sulla relazione del tutto particolare che si instaura tra un agente dell’intelligence e il suo informatore: una relazione governata dalle bugie e dall’inganno, e in certa misura anche dall’auto-inganno. Ma è anche la storia del legame tra Mosab e Gonen, e di come la loro umanità abbia annullato ogni regola e abbattuto ogni confine.

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Quali sono state le difficoltà maggiori nel realizzare il film?

Volevamo che il film fosse estremamente coinvolgente, insieme pieno di suspense e catartico, adrenalinico e toccante. Ho sempre in mente le parole di Billy Wilder: «Bisogna afferrare il pubblico e non lasciarlo andare fino alla fine». Più che un film su due personaggi, è un film sul loro rapporto: su come due “nemici giurati” possano diventare “migliori amici”. Per quanto riguarda l’aspetto visivo, ci è stato subito chiaro che avevamo due punti di vista: quello del “sistema”, cioè i droni e le telecamere di sorveglianza che vedono gli esseri umani come semplici funzioni o tracce su una mappa; e quello dei protagonisti, fragile ed emozionale. Inoltre è stato molto impegnativo trovare delle immagini d’archivio che conferissero al film un senso di immediatezza: siamo stati molto fortunati a scoprire alcune vere perle, come il materiale di Mosab a Ramallah, negli anni in cui operava ancora sotto copertura.

Il rapporto spia-agente sembra essere il filo rosso che unisce tutti i suoi documentari. È particolarmente attratto dal mondo dei servizi segreti?

Sono interessato a cosa accade nelle relazioni che sono sottoposte a una estrema pressione. Nel mio primo documentario, The Champagne Spy, si tratta della relazione tra un ragazzo e suo padre, un agente segreto del Mossad che nel tempo diventa schiavo della propria falsa identità. Nel mio secondo film, In The Dark Room, sia la moglie che la figlia dell’uomo più ricercato al mondo, Carlos lo Sciacallo, faticano a venire a patti con le proprie relazioni familiari. Il figlio di Hamas è anche la storia di un figlio costretto a tradire il padre e la famiglia per fare ciò che nella sua mente è giusto fare.

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Considera Il Figlio di Hamas un film politico?

Assolutamente sì e al tempo stesso no. La politica è il terreno da cui nasce la storia, lo scenario. Ma non ha nessun ruolo nelle scelte narrative o tematiche che ho preso. Come spiegavo prima, si tratta di un film sulle relazioni messe alla prova, sugli esseri umani e su come si comportano quando sono sottoposti a una grande pressione.

Quali misure di sicurezza avete dovuto rispettare durante le riprese?

Quando abbiamo girato con Mosab in Germania, abbiamo dovuto essere molto discreti riguardo al suo viaggio e al suo domicilio di residenza. Inoltre, avevamo una guardia armata sul set durante la prima fase delle riprese. Quando ho conosciuto Mosab, un paio d’anni fa a New York, sedeva sempre spalle al muro, con lo sguardo puntato sulla porta. Eravamo costretti a spostarci ogni due ore, per non restare troppo a lungo nello stesso posto. Oggi la situazione è più rilassata, credo. Quando abbiamo girato nella Striscia di Gaza, abbiamo dovuto adottare un profilo molto basso: a volte è stato difficile, essendo la nostra una troupe internazionale, e alcuni di noi israeliani. Ma questo stato di tensione ci manteneva sempre in allerta, in qualche modo in sintonia con il punto di vista del nostro protagonista.

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Quale lezione spera che il pubblico possa trarre da questo film?

La speranza, perché laddove i politici falliscono, i singoli individui invece possono avere successo, anche contro ogni previsione. E un incoraggiamento a rischiare per ciò in cui si crede. La consapevolezza che le cose non sono mai come sembrano, e che si dovrebbe approfondire prima di formulare giudizi affrettati.

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