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INTERVISTA – Michele Riondino: “Basta, l’ex Ilva va chiusa. Dirò sempre ciò che penso: sono un Cittadino prima che un Attore”

Domenica 10 novembre, primo pomeriggio. Al Teatro Fraschini di Pavia sta per andare in scena l’ultima replica de Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov e io ho un appuntamento con Michele Riondino, l’attore che interpreta il personaggio principale, il Diavolo Woland. Arriva puntualissimo e io, avendo visto lo spettacolo la sera prima, mi congratulo con lui. Non avevo dubbi, perchè Riondino per me è un attore eccezionale, che stimo tantissimo e che quasi dieci anni fa (10 dicembre 2009) usciva in sala con un film che mi è rimasto nel cuore, Dieci Inverni di Valerio Mieli.

(Foto di Guido Mencari)

Michele Riondino è Woland ne “Il Maestro e Margherita” (Foto di Guido Mencari)

Intervista a Michele Riondino

Dopo avermi ringraziato per i complimenti ci siamo seduti su un divano. Pochi giorni prima, il 7 novembre, ho seguito il consiglio che ha condiviso sulla sua pagina Facebook, ovvero quardare Ilva. A Denti Stretti, il film-documentario del regista e giornalista Stefano Maria Bianchi sulla tragedia ambientale dell’ex Ilva. Una situazione estremamente e profondamente delicata che Michele Riondino, nato a Taranto, vive da vicino da sempre. Con passione e partecipazione: ci ha messo la faccia, sempre, ha detto ciò che pensava, sempre. Lo ha fatto con me anche questa volta. Per me è stato impossibile non iniziare da lì.   

Sono giorni caldi sul tema Ex Ilva. Cosa ne pensi come Cittadino, come Uomo e come tarantino?

Provo esattamente la stessa cosa in tutte e tre le vesti. Sono un cittadino di Taranto, conosco questo dramma, come altri miei concittadini, esattamente come non lo conoscono affatto gran parte degli attori che devono risolvere questa situazione che fa molta rabbia. Pur conoscendo la materia, in tutti i suoi aspetti, sulla carta quel documentario di cui parli non avrebbe dovuto sconvolgermi più di tanto perché parla di ciò che da anni vivo nella mia città. Eppure non sono riuscito a vederlo. Mi è bastato vedere il momento in cui una povera bimba chiede “cos’è quel liquido bianco che mi iniettate?” (ciclo di chemioterapia ndr) e i dottori le rispondono che è latte (“ma io il latte lo bevo dalla bocca!”, ndr)… Ecco, quel momento mi uccide. Davanti a questo, tutti i discorsi ed i ragionamenti che ora si stanno facendo sull’ex Ilva, riguardanti il tema occupazionale e la crisi sociale che scaturirebbe dalla chiusura della fabbrica, per me spariscono: non valgono assolutamente niente di fronte a quella bimba.

E invece…

E invece in televisione e sui giornali viene data voce e spazio a gente che dice che la malattia di quella bambina (e la morte di tanti altri bambini ndr.) “è il prezzo da pagare per avere il sistema industriale che abbiamo”, e quindi “dobbiamo farci l’abitudine”. Ma io questo non lo accetto. Non lo accetto da cittadino e non lo accetto da uomo. Non lo accetto e basta, preferirei affondare. Preferirei che l’Italia affondasse piuttosto che condannare a morire quella bambina, simbolo di tutti quei bambini e di quei lavoratori che per quell’azienda sono morti. Non è accettabile, ripeto, non lo accetto e continuerò a non accettarlo.

"Ilva. A Denti Stretti"

“Ilva. A Denti Stretti”

Se si chiude ci vorranno decenni per risanare il territorio…

Se si chiude subito sì. È dagli anni ’50, da quando è nato quell’impianto, che noi cittadini di Taranto subiamo questa situazione. Non l’abbiamo voluta noi, ce la siamo trovata addosso. Non è una nostra responsabilità, non siamo noi ad aver agito male. È stato il Sistema Italia ad aver gestito così. E non ha neanche sbagliato, perché quell’industria ha dato da mangiare e da vivere ad una città che negli anni è diventata Grande. Ma una nazione che vuole puntare sul siderurgico e sulla grande industria deve anche aver cura di rendere contemporanea e innovativa un’azienda. Nel corso degli anni invece non è stato fatto nessun tipo di intervento per rendere quell’azienda al passo con gli anni. E non dico nemmeno “compatibile con la vita” perché l’industria, ovviamente, non è mai compatibile con la vita, inquinerà sempre. Si poteva usare la tecnologia per avere degli impianti più innovativi e meno impattanti. Il Processo Ambiente Svenduto dichiara che la famiglia Riva, coloro che hanno comprato e privatizzato l’Italsider, hanno guadagnato sulle spalle dei cittadini senza reinvestire in impianti nuovi e in nuove ristrutturazioni. Quindi non può essere colpa nostra. Quindi quelle fonti inquinanti vanno chiuse subito.

E poi?

Prima chiudano quelle fonti inquinanti, poi, se ci sono i soldi, la voglia e forza di volontà, ricostruiscano un siderurgico che sia all’avanguardia, che sia all’altezza di altri siderurgici, come quelli di Bilbao e della Ruhr che, nonostante sorgano accanto a delle città e dei centri abitati, incidono sull’ambiente e sull’uomo il meno possibile. Gli esempi ci sono. Fatelo, facciamolo. Però le fonti inquinanti chiudetele subito.

Senza mezzi termini.

Non si può mettere un’altra toppa. Dodici decreti Salva-Ilva non hanno fatto altro che impedire alla magistratura di far rispettare la legge a dei privati. È come se io ammazzassi qualcuno con la mia auto e, per via di qualche mia amicizia politica non mi togliessero la patente di guida: anche se continuo ad andare in giro, resto un assassino. Il ragionamento non è ideologico, ma logico.

Ai dipendenti dell’ex Ilva che diresti?

Purtroppo hanno questa croce addosso, sono vittime e carnefici allo stesso tempo. Per questo è difficile relazionarti con la classe operaia di Taranto: c’è confusione, c’è ambiguità che provoca solo una guerra tra poveri che non porterà assolutamente a niente.

Ex Ilva, Taranto

Ex Ilva, Taranto

Ci sono diverse testimonianze di lavoratori che sono stati licenziati dopo aver denunciato pratiche scorrette o dannose per la salute.

Ne colpiscono uno per educarne cento, è la regola. Quando i Riva sono entrati all’Italsider la prima cosa che hanno fatto è stata quella di attivare un sistema punitivo per far capire a tutti gli operai e ai dipendenti dell’azienda chi comandasse. É stata creata la palazzina Laf, un reparto-lager dove finivano tutti i lavoratori politicizzati e sindacalizzati che rompevano il ca..o. Li mettevano lì, a far nulla. Appena è arrivata Arcelor-Mittal la prima cosa che ha fatto è stata mandare in esubero tutti – non ne manca neanche uno – quelli che hanno protestato in questi anni. Gli operai del comitato di cui faccio parte (Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, ndr) sono stati mandati in cassa integrazione da Arcelor Mittal perché erano scomodi.

La politica come sta gestendo la situazione secondo te?

La politica ha dimostrato di non essere in grado di gestire questa situazione. In questa ultima settimana dove è riscoppiato il caso Ex Ilva evito di guardare la tv perché trovano spazio politici inattendibili. Sono stato invitato ad andare anch’io ma ho sempre rifiutato, sono programmi dove si dà spazio e si dà credito a questi personaggi: non è il mio posto. Se io fossi un imprenditore verrei di corsa in Italia ad investire: il Governo Italiano è totalmente incapace a fare contratti a suo vantaggio. Se contrattassi con il Governo Italiano avrei solo da guadagnarci.

Prima abbiamo parlato di quel documentario. Secondo te il cinema rappresenta ancora un’arma per far riflettere il pubblico su tematiche attuali importanti?

Un documentario, un film, un libro, una canzone, una poesia o un quadro possono fare riflettere. Ma fanno riflettere chi ha deciso di spendere il suo tempo per dedicarsi a quel documentario, quel film, quel libro, quella canzone, quella poesia, quel quadro. Il fatto è che oggi c’è un modello di comunicazione diverso dal passato. Non è più lo spettatore a scegliere che film andare a vedere, ma è l’argomento e chi gestisce quell’argomento che sceglie lo spettatore. Con questo modello è diventato più difficile far passare certi messaggi. Succede invece che passano con facilità altri argomenti, altre informazioni e altre contro-informazioni che hanno molta più presa sul pubblico. Penso soprattutto ai modelli comunicativi di un personaggio come Matteo Salvini, un totale inetto, che in rete acchiappa quanta più gente possibile tra i suoi elettori, che ci cascano. Ma Salvini non è colui che ci salverà dal baratro.

Gian Maria Volonté ne "Il Caso Mattei" di Francesco Rosi (1972)

Gian Maria Volonté ne “Il Caso Mattei” di Francesco Rosi (1972)

Tornando al cinema, mi vengono in mente i film civili di Elio Petri e Francesco Rosi. E attori contro come Gian Maria Volonté. Esempi di come “praticare l’arte poteva anche trasformare il mondo”. Secondo te questo tipo di cinema è solo un ricordo?

No, tutto è ciclico. Si tornerà a quei modelli, ne sono sicuro. Però bisogna aspettare che finisca “il giro”. Nel frattempo i film di Petri e Rosi continuano a cambiare il mondo, e mi riferisco al mondo individuale della persona che va a bere a quella fonte, che vede e rivede i loro film.

Michele, dici quello che pensi, non è da tutti, soprattutto in Italia.

Prima ancora che attore sono un cittadino. Anche se ho un seguito pubblico, io ho il diritto e il dovere di dire la mia. Non si può piacere a tutti, anche a rischio di condizionare la mia carriera artistica. Per me conta guardarmi allo specchio senza la voglia di sputarmi in faccia.

Questo ti fa onore, perché oltre ad essere un artista, esponendo il tuo pensiero, diventi anche un punto di riferimento per chi ti segue. So che per te un punto di riferimento è stato Andrea Camilleri…

Piango ancora adesso la sua scomparsa. Non è l’artista e l’uomo di lettere che mi manca. Quello che mi manca è il suo apporto a quelli che sono i temi di attualità. Quando apriva bocca, nessuno osava confrontarsi con lui, un uomo dalla stazza morale e intellettuale inarrivabile. Solo quando è morto gli odiatori sociali e seriali hanno trovato il coraggio di esprimersi perché lui ormai non poteva, e non può, più rispondere. È questo il lutto, è questo il vuoto che mi ha lasciato la scomparsa di un personaggio come Andrea Camilleri.

Foto di: Fabrizio Di Giulio

Michele Riondino ne “La Mossa Del Cavallo”, dal romanzo di Andrea Camilleri (Foto di: Fabrizio Di Giulio)

Tra poco ti lascio al trucco, stai per diventare nuovamente il demoniaco Woland de Il Maestro e Margherita. Sul tuo personaggio e sullo spettacolo è già stato detto di tutto, anche sulla similitudine con il Joker, ancor prima che uscisse il film. Io invece volevo tornare alla stretta attualità. Arthur Fleck era un disagiato emarginato che sfogava tutto in quel personaggio. Michele Riondino, particolarmente incazzato per la questione ex Ilva, quanto allo stesso modo si sfoga attraverso il suo Woland?

Ho messo tutto me stesso per costruire il personaggio di Woland. O meglio, la mia idea di personaggio, soprattutto nella relazione tra lui e l’Uomo. Quindi tutto quello che avevo da dare l’ho dato prima, in fase di prove. La messinscena rappresenta la celebrazione finale, il funerale di quella mia personale operazione di costruzione. Il teatro poi diventa ripetizione, stesse parole, stessi gesti. Però devo ammettere che spesso in questo spettacolo mi viene voglia di andare oltre al testo. Sono molto in ascolto a quello che succede in sala, e in questo momento sono talmente con i nervi scoperti che potrei anche reagire se me ne presentasse l’occasione. Evidentemente perché vesto i panni di un personaggio che mi dà la possibilità di “scontrarmi” con gli altri. A volte spero che qualcuno del pubblico dica qualcosa per aprire un dibattito. Gli risponderei come Woland e ne scaturirebbe uno scambio tra comuni mortali e me, che in scena sono il Diavolo. Basterebbe una scintilla per esplodere…

Cioè?

Non fa mai piacere per un attore sentire un telefono che squilla durante lo spettacolo. E ancora di più distraggono le luci dei cellulari, forti come dei led. Le persone che vengono in teatro e messaggiano di continuo non si rendono conto che noi dal palco vediamo tutto. A volte viene voglia di reagire. Per questo un po’ spero che succeda, che un telefono squilli (ride ndr). Sarei pronto a rispondere al malcapitato spettatore. E ovviamente gli risponderei da personaggio, come Woland: sarebbe divertente e liberatorio.

Michele Riondino e Isabella Ragonese in "Dieci Inverni"

Michele Riondino e Isabella Ragonese in “Dieci Inverni”

Il Maestro e Margherita, e quindi Mosca. E Mosca mi fa venire in mente Dieci Inverni. Sono passati dieci anni da quel meraviglioso film, secondo me una delle più belle storie d’amore viste al cinema di sempre. Mi regali un aneddoto? Poi puoi andare sul palco, promesso.

È stata un’esperienza importantissima. Ho un ricordo molto bello, per me, per Isabella Ragonese, per Valerio Mieli che era al suo primo film. Io e Isabella avevamo fatto tanti laboratori teatrali insieme e quel film è stata la nostra occasione di lavorare insieme. È stata la prima volta, non l’ultima, perché adesso ci siamo ritrovati in un nuovo progetto. Tornando al film di Mieli ricordo che giravamo a Venezia e a Mosca, con un freddo cane, tantissime ore, tanta fatica. Per questo noi sul set lo chiamavamo Dieci Inferni: c’era un po’ di scetticismo e di paura, perché non sapevamo bene che film sarebbe venuto fuori. Invece è venuto fuori un gioiello che ha cambiato tutti noi.

Intervista di Giacomo Aricò

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