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Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick, la brutale assurdità della guerra

Un anno fa vi avevamo parlato di Full Metal Jacket (1987), un film di guerra che Stanley Kubrick realizzò trent’anni dopo il precedente Orizzonti di Gloria (1957). Ad accomunare i due film c’è il medesimo messaggio antimilitaristico e antibellico. Entrambe le pellicole non approfondiscono i motivi che hanno ispirato i due conflitti (la Prima Guerra Mondiale e La Guerra in Vietnam), dando per scontato che nulla potrebbe giustificare tutto il dolore e la sofferenza riservati sulle spalle di così tante persone. Oggi, a pochi giorni dal 102° compleanno di Kirk Douglas (9 dicembre), vogliamo ricordare Orizzonti di Gloria, uscito in Italia nel 1958, 60 anni fa.

Il cinismo degli uomini

L’accento di Kubrick è sul cinismo degli uomini, sui loro difetti, sul fatto che la guerra costituisce l’occasione ideale per far affiorare quanto di peggio l’uomo può fare e mostrare di sé: l’esaltazione della crudeltà, il rovesciamento di ogni etica e l’esaltazione (premiata) dei vizi peggiori. In Orizzonti di Gloria – tratto dal romanzo omonimo di Humphrey Cobb – i cosiddetti comandanti (Generali, Colonnelli,…) sono impegnati soprattutto a costruire le proprie carriere, ordire manovre e congiure per soddisfare ambizioni personali. In tale ottica non esitano a far morire, in attacchi dissennati, centinaia e poi migliaia di soldati (uomini) ignari di dover morire non tanto per la Patria (come a loro viene inculcato) ma soltanto per far ottenere qualche mostrina in più sulla divisa di uno stupido ufficiale.

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Morire senza una colpa

La vicenda del film riguarda i ripetuti attacchi ad una postazione nemica molto forte ed organizzata, che non avevano avuto successo e che pertanto creava l’esigenza di trovare a tutti i costi dei colpevoli, nel contesto di un pesante “gioco” di potere tra i comandanti. Lo spettatore vede bene che le uniche colpe sono degli ufficiali stessi, valorosi e pronti, al sicuro, però, nelle retrovie, a impartire coraggiosi ordini di attacchi che equivalevano a veri e propri, inutili bagni di sangue. L’insuccesso verrà dunque poi espiato con la fucilazione di tre soldati giudicati colpevoli, sebbene non solo del tutto innocenti, ma anzi tesi, in modo commovente, a far del loro meglio (uomini che nella loro vera vita non erano certo dei guerrieri) per servire la Patria. A riprova dell’assoluta inutilità della loro morte, che doveva costituire un esempio affinché anche tutti gli altri ben ricordassero di dover essere sempre pronti al Supremo Sacrificio per la Patria, di vede poi che quell’ufficiale non avrebbe avuto alcun giovamento di carriera dal sacrificio di quei poveretti. Morti dunque per nulla.

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Falsità, ipocrisie, sentenza già scritta

L’unico personaggio positivo che vede e comprende tutto, il Tenente Dax (Kirk Douglas), non riesce comunque a fare alcunché per salvare i propri uomini, nel processo imbastito contro di loro. La sentenza è già scritta ancor prima dell’inizio ed anche i suoi tentativi di opporsi contro i comandanti, usando alfine anche le armi dell’intrigo e della delazione, non hanno successo, finendo anch’egli coinvolto in sordide manovre di potere. Sino all’ultimo lo spettatore spera di vedere risparmiati i soldati innocenti, ma non vi è alcun lieto fine. Il film colpisce e trasmette, con le strazianti immagini di chi, suo malgrado, doveva accettare di morire per motivi che non poteva condividere o, almeno, comprendere, un senso di rabbioso disgusto e di ripulsa contro, non solo, semplicemente, la guerra, ma anche contro ogni ipocrisia e tutte le falsità che gli uomini sanno creare per i propri scopi abietti ed egoistici.

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Una finta fede

Il falso scopo del doveroso rispetto di un ottuso Regolamento (mentre è a tutti chiaro che non vi era alcuna colpa in quei soldati) era in realtà un’orrenda macabra farsa, dove tutti i protagonisti (i Comandanti, i membri del Tribunale Militare, il Cappellano Militare – anch’egli funzionale al potere costituito, con le sue assurde  parole di conforto, ma senza vera compartecipazione al dramma, senza un solo gesto di carità cristiana o, semmai, di ribellione contro una decisione che si presenta alle nostre coscienze come un vero e proprio omicidio – e tutti gli altri) impersonano una parte che taluno vuole ed altri sono costretti a recitare fino in fondo, facendo comunque tutti finta di credere alla giustizia di quell’orribile esecuzione.

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Pessimismo e sfiducia nei confronti dell’Uomo

Con Orizzonti di Gloria, Kubrick esprime tutto il suo pessimismo e la sua sfiducia verso gli uomini, creatori di grandi menzogne ed indifferenti dispensatori di morte per fini abbietti. Niente si salva: né i grandi valori ottocenteschi (patria, onore,…), né uomini (governi, dinastie regnanti, gerarchie, ufficiali,…), né religione (anch’essa asservita al potere per partecipare con falsa pietas, ornata dei suoi vuoti orpelli, al banchetto del potere stesso). L’abiezione e meschinità più spregevole si annida in ogni uomo: la scelta di uno di quei poveri capri espiatori era stata operata dal suo superiore solo perché quello era per lui lo scomodo testimone di una mancanza del graduato stesso, così diventato arbitro di vita o di morte. La rabbia e l’indignazione è estrema: si tratta di un vero delitto, ma non ci sarà né castigo, né pentimento. Non c’è spazio per la speranza: i pochi giusti che restano (come Dax) vedono, comprendono ed anche quando tentano di denunciare le situazioni e di far qualcosa, non riescono ad ottenere nulla, avendone anzi solo danno e derisione. Splendida metafora per il regista stesso che vede, capisce e denuncia, teme di non poter ottenere un cambiamento nell’uomo e nella società, ma che, diversamente dal Tenente Dax, in realtà, non si arrende e prova a darci almeno uno stimolo per la meditazione e la consapevolezza.

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Una sequenza memorabile

Di questo film, resta memorabile la lunghissima carrellata (piano sequenza) del Tenente Dax che cammina all’interno della lunga trincea, passando in rassegna le sue truppe, i suoi uomini, poco prima dell’attacco che ciascuno sapeva avrebbe portato inevitabilmente alla morte una percentuale altissima di loro: volti lividi, visi terrei, occhi e sguardi fissi, come allucinati, semplici fanti, consci ed impotenti, già ghermiti dalla morte. E poi il Tenente Dax, con il suo volto dolente per loro e per sé, destinato, senza alcuna distinzione o privilegio rispetto ai suoi soldati, ad uscire tra un attimo dalla trincea e diventare anch’egli carne da macello, facile bersaglio dei nemici e delle loro armi micidiali. Un lungo scambio di sguardi, un tacito addio ed un ideale virile abbraccio tra chi condivideva lo stesso destino.

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La coscienza del Tenente Dax

Kubrick rende loro un sincero omaggio, loro sì eroici, seppure nella loro commovente ed umana paura, nel terrore del dolore, ma pronti, per il senso del Dovere loro inculcato, al Sacrificio più alto per la loro Patria. E ancor più eroico era il Tenente Dax, esattamente al corrente di tutto, della ottusa stupidità degli ordini superiori e dell’inutilità di quell’ennesima azione suicida che lui stesso doveva di fatto ordinare. Il suo non risparmiarsi pericoli, il suo volersi porre davanti a tutti, esponendosi più di loro al fuoco ostile, ci fa comprendere il suo travaglio, la sua disperazione per essere stato proprio lui il materiale esecutore degli ordini di attacco, sicura causa di morte per tanti dei suoi soldati. Un’inconscia ricerca di una pallottola, per una nemesi ed un riscatto da una colpa che non sapeva perdonarsi.

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Il dolore senza colore

L’assenza del colore non attenua l’efficacia e l’orrore delle immagini. Tutto si esprime nelle sfumature del grigio: la terra nuda della trincea; la distesa di fango; le pozze d’acqua; le buche scavate dalle esplosioni delle granate che costituivano il campo di battaglia; i volti dei soldati, le loro divise, le loro armi…Tutto è grigio e in pochi attimi i caduti si moltiplicano e si amalgamano con il fango, quasi indistinguibili da esso, tornando alla terra alla quale biblicamente tutti siamo destinati. Non vi è alcuna bellezza eroica da vedere, niente sole tra i capelli, niente erba ad accogliere la caduta dei fanti, nessun gesto plastico, nessuna ultima generosa e nobile frase da affidare al compagno d’armi, nessun assurdo romanticismo o stupida pretesa di rappresentare come serena o moralmente appagante la morte in battaglia. Solo morte vera, sofferenza, corpi martoriati, urla e dolore.

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La salvezza è la Donna

Nel finale del film compare una sola donna (Christiane  Kubrick) che, contro la sua volontà, è costretta a cantare in un’osteria piena di soldati destinati al fronte. Per lei, piangente, è un’umiliazione, una violenza quasi fisica, il suo canto vissuto come qualcosa di troppo intimo, che non voleva esibire davanti a tutti, soprattutto davanti a quei soldati a lei nemici. Quando alla fine è costretta a cantare, con evidente, dolente sforzo e sofferente pudore violato, la sua esile voce sa trasmettere ai fanti (e allo spettatore) emozioni e commozione. Un canto che, pur non direttamente comprensibile nelle sue parole, ci parla con dolcezza di affetti familiari, di pace d’amore. Al pessimismo di Kubrick circa il genere umano, si accompagna l’idea che la donna possa essere la figura forte del futuro, nella quale riporre ogni speranza. La donna quale dolce ed inflessibile custode della morale, della forza dell’amore e della famiglia, ancora capace di positive passioni etiche e politiche. In una parola, la nostra Salvezza.

Folco Twice

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