Un fluire continuo fra vita e morte, amore e dolore, storia e presente. Questo e molto di più è The Book of Vision, il film diretto da Carlo Hintermann e prodotto da Terrence Malick che – dopo essere stata presentata come Evento Speciale alla Settimana Internazionale della Critica in occasione della 77esima Mostra del Cinema di Venezia – dall’8 luglio arriverà nelle nostre sale. La pellicola è interpretata da un cast internazionale che comprende: Charles Dance, Lotte Verbeek, Sverrir Gudnason, Isolda Dychauk, Rocco Gottlieb, Justin Korovkin e Filippo Nigro.
Il film
Eva (Lotte Verbeek), una giovane e promettente dottoressa, abbandona la sua carriera per immergersi nello studio della Storia della medicina e mettere in discussione tutto: la propria natura, il proprio corpo, la propria malattia e un destino che sembra segnato. Johan Anmuth (Charles Dance) è un medico nella Prussia del Settecento, in bilico tra nuove spinte razionaliste e antiche forme di animismo. Book of Vision è il manoscritto capace di intrecciare le loro esistenze in un vortice ininterrotto. Lontano dall’essere un testo scientifico, il libro contiene le speranze, le paure e i sogni di più di 1800 pazienti: il medico prussiano sapeva come ascoltarli e il loro spirito vaga ancora tra le pagine, dove vita e morte fanno entrambe parte di un unico flusso. La storia di Anmuth e dei suoi pazienti darà così a Eva la forza per vivere appieno la propria vita, comprendendo che niente si esaurisce nel proprio tempo.
Intervista a Carlo Hintermann
Il dialogo stesso con il regista di The Book of Vision, Carlo Hintermann, è un fluire continuo: da Barry Lyndon a Star Wars, passando per i videogiochi e le graphic novel di Alan Moore. Questo approccio nerd nel senso più ampio e stimolante del termine ha contribuito alla creazione di un film che, nelle parole dello stesso regista, «vuole essere un omaggio alla forza inesauribile della vita e alla necessità di una continua rinascita». Ho avuto il grandissimo piacere di parlarne insieme a lui.
«Pagina dopo pagina Eva capisce quanto la storia di un medico del Settecento possa aiutarla a percepire se stessa come qualcosa di unico. Finalmente può scrollarsi di dosso lo sguardo di tutti coloro che vogliono decidere della sua vita: medici, genitori, amanti. Eva è come se fosse la prima donna sulla terra, guarda il suo corpo e capisce che solo lei può decidere del suo destino. Solo lei può ascoltare le voci del passato per mettere in discussione il presente». Questo racconta il pressbook di The Book of Vision. Quindi la prima domanda è: perché proprio il Settecento? Lo vede legato alla femminilità e alla sua attuale riscoperta?
La dimensione femminile è esattamente il punto di partenza. La prima fonte d’ispirazione è stato uno studio della storica Barbara Duden, che si interroga sul modo in cui il corpo delle donne è diventato una sorta di luogo pubblico, su cui chiunque può costruire un discorso. La Duden ha studiato gli appunti di un dottore tedesco della prima metà del Settecento, in cui emergono le storie mediche di centinaia di donne di ogni età e condizione. Il corpo era qualcosa su cui solo i pazienti potevano raccontare una storia e che non poteva essere semplice oggetto di investigazione. Dalle testimonianze vediamo che le donne concepivano il proprio corpo come “parlante”, non scisso dal resto della propria persona. Da qui è nata l’indagine di questo film. Il Settecento rappresenta proprio lo sfondo del collegamento fra medicina antica e medicina moderna, fra narrazione e investigazione del corpo, in cui si supera quella barriera della pelle che prima della chirurgia era quasi invalicabile. Allo stesso tempo, il XVIII secolo era anche un momento di tensione fra le spinte pre-illuministe e la tradizione animista della cultura popolare in cui la relazione con la natura era fortissima, soprattutto nella Prussia in cui è ambientato il film. Con il passare del tempo, è mancata la congiunzione fra queste due spinte, si è creata una cesura che ha inciso molto sulla storia europea. Quindi indagare la storia della medicina, il corpo visto dalle donne e l’animismo, che a sua volta ha una fortissima componente femminile, mi è sembrato un terreno di sperimentazione veramente interessante.
Tornando sulla femminilità, il film sembra dare un nuovo valore all’importanza del racconto personale, delle fantasie, della sessualità rispetto alla tradizionale indagine medica. Anche questa svolta si può connettere a un approccio più “femminile” oppure a uno sguardo umanista che prescinde dal genere?
Non per niente si è imposta la medicina narrativa, una branca del settore in cui la guarigione è vista come indissolubile dalla consapevolezza del paziente. La cura passa anche per la capacità di dare un nome alla propria condizione. È importante tanto quanto la diagnostica, tanto quanto l’intervento sul corpo. Per quanto riguarda il genere, la nuova libertà del Settecento affonda le radici molto più lontano. Tanto è successo in quest’epoca, ma il XVIII secolo viveva ancora di retaggi culturali del Rinascimento: nel pensiero umanistico la questione del genere era molto più fluida che in seguito, quando la Controriforma mise di nuovo in discussione molti elementi. Proprio nel Rinascimento si diffuse nell’arte la figura di San Sebastiano, a testimonianza di una religione che passava anche attraverso la sensualità, non demonizzata ma vista come strumento di devozione moderna. Questo sentimento, nonostante i limiti imposti in seguito, ha continuato a viaggiare sotterraneamente nel tempo.
Nel pressbook ho trovato un parallelismo tra storia e fantasy che mi ha entusiasmato: «È come se Barry Lyndon improvvisamente decidesse di lanciarsi nello spazio. Come nel fumetto “The League of Extraordinary Gentlemen”, le qualità straordinarie degli uomini hanno la forza di viaggiare nel tempo». Lo stesso Kubrick non a caso inserì l’elemento settecentesco anche nel suo 2001: Odissea Nello Spazio, in contrasto con il ritorno del monolito. Come si legano in The Book of Vision il XVIII secolo e questi intrecci culturali?
Il Settecento fu un momento germinale, in cui si riversarono tutte le tensioni moderne. Alla fine del secolo prese forma l’origine della società come noi la intendiamo, dal pensiero filosofico all’orientamento politico. La Prussia di quegli anni era una nazione moderna a tutti gli effetti, con i propri confini e una potenza militare. Ma il lato più affascinante per me è che il Settecento conteneva tantissime tracce delle epoche precedenti. Quando avviene qualcosa di eccezionale, le sue tracce si conservano nel tempo. Se io leggo un romanzo bellissimo, in quel momento mi sento contemporaneo dell’autore. Il nostro tempo non è autosufficiente, lo possiamo modellare con lo sguardo all’indietro e lo sguardo in avanti. Infatti l’unico tempo lineare in The Book of Vision è quello del potere, rappresentato da un personaggio il cui percorso è una direttrice inarrestabile. Il resto è apertura verso il possibile: per questo gli stessi attori interpretano un ruolo nel passato e uno nel presente. È un processo di trasformazione che coinvolge anche la natura: noi ci illudiamo che l’ordine naturale sia qualcosa di dato, ma non è così. Al contrario, la natura si evolve continuamente. Ce lo aveva già raccontato Charles Darwin studiando gli ibridi, che in quel momento sembravano un insuccesso dell’evoluzione e invece rappresentavano l’evoluzione futura. Lo vediamo anche oggi con i nostri occhi. Ad esempio abbiamo appena scoperto che lo scinco tridattilo è capace di deporre uova e contemporaneamente partorire cuccioli vivi, a seconda del contesto in cui vive. La natura non è mai ferma. Nel futuro può succedere di tutto: la vita su Marte, parti bioniche all’interno del nostro corpo… e per me sono tutte opportunità.
Il film sembra costruito su un concetto di dualismo fluido che è in effetti molto settecentesco: morte/vita, passato/presente, dolore/amore, razionalità/animismo, corpo/anima. Visto che si parla di medicina e di cura, è un dualismo che va ricomposto per guarire? È questo il significato della colonna sonora che va a unire sonorità del passato con l’elettronica del futuro?
La ricomposizione della frattura è un bisogno atavico nell’essere umano. C’è un termine ebraico, Tikun, che significa proprio “riparare”. La necessità di sintetizzare il dualismo si traduce poi in una risposta istintiva che può essere religiosa, filosofica, artistica: sono tutte diverse ma nascono dalla stessa domanda, che se non affrontata lascia soli davanti all’abisso. Già la tragedia greca ci metteva di fronte all’abisso che abbiamo dentro, che è insopprimibile. Bisogna interrogarsi su questo, tenerne conto. Nel caso della colonna sonora, siamo partiti da Brahms e Liszt, che erano completamente immersi nella scrittura musicale classica di Bach ma gettarono le basi per l’armonia contemporanea da cui sono nati i Beatles e i Beach Boys. Brahms diceva una cosa importantissima: non bisogna fare, ma rifare. Che non significa imitare, ma riportare alla vita. Per questo il film inizia con una citazione dalla Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino: «To be again, this is the question». È essenziale in un momento come quello che stiamo vivendo: siamo proprio chiamati a reinventarci, a rinascere. Abbiamo visto che eravamo impreparati, proprio perché non siamo più abituati a ricomporre il dualismo vita/morte. La morte è diventata qualcosa di innominabile e quindi enorme. Noi siamo orientati al mondo occidentale, ma altrove l’orizzonte della morte è presente e quotidiano. Me ne sono reso conto girando il documentario The Dark Side of the Sun: ho dovuto rivoluzionare il mio sguardo per capire come un bambino possa vivere sempre a contatto con l’abisso. Con un’esperienza del genere, c’è per forza un prima e un dopo.
The Book of Vision è ambientato in modo esplicito nella prima parte del Settecento, un secolo che per Fellini era ormai cinematograficamente «esausto». La squadra creativa come ha affrontato dal punto di vista visivo questo particolare periodo del XVIII secolo? Avete tenuto conto delle fonti artistiche?
C’è Settecento e Settecento. Sicuramente quello più “esausto” è quello di Maria Antonietta. Quello di Barry Lyndon è già un crocevia diverso. In questo caso, è stato particolarmente stimolante perché non esiste repertorio cinematografico su questo specifico periodo. Una sfida incredibile, che mi ha interessato proprio perché volevo ricreare un universo mai rappresentato prima. Quindi la nostra ricerca è partita da altre fonti: la pittura prussiana ci ha aperto molti scenari con la sua abbondanza di particolari. Dovevamo descrivere un luogo e un tempo in cui convivevano l’aristocrazia, con chiari rimandi alla Russia e alla Francia, e il popolo, con i propri riferimenti visivi e culturali. Tutti questi elementi hanno dialogato fra loro, senza dimenticare la transizione da un’epoca all’altra. Quindi abbiamo scelto di lavorare tantissimo sui dettagli di costumi e scenografia, che rappresentano questa stratificazione e parlano per i personaggi. Il risultato è quindi tutt’altro che esausto, anzi è molto vivo. Io amo moltissimo i periodi di transizione. E questo è il periodo in cui si gettarono le basi della civiltà moderna. Volevo che la testimonianza di questo fosse davanti ai nostri occhi.
Parlando proprio di costumi, un’immagine mi ha particolarmente incuriosita per la relazione cromatica: Charles Dance nei panni del dottor Morgan, completamente vestito di rosso in sala operatoria. Durante la collaborazione con Mariano Tufano con quale criterio sono stati creati i costumi?
In quell’epoca le persone abitavano il proprio spazio in modo molto diverso da quello a cui siamo abituati oggi. Lo stesso spazio a disposizione era molto maggiore. Quelli che per noi oggi sono costumi, erano gli abiti che contribuivano a creare una relazione a distanza. Ogni costume creato ad hoc per questo film ha quindi il ruolo di avvalorare i rapporti di forza fra i personaggi. Ad esempio, il medico settecentesco sempre interpretato da Charles Dance è descritto con estrema ricchezza di particolari, per rispecchiare una personalità di grandissima formazione e apertura culturale. Anche la caratterizzazione cromatica per le scene di epoca moderna nasce dalla stessa esigenza. Sono le visioni la vera geografia del film, quindi anche un evento molto concreto come l’operazione chirurgica si sposta di dimensione. Già in Inseparabili di David Cronenberg assistiamo a una situazione analoga. Quindi il colore è esattamente al servizio del personaggio e del contesto in cui si trova.
Il film gode di un cast internazionale di attori e attrici come Charles Dance, Lotte Verbeek, Sverrir Gudnason e Isolda Dychauk, oltre al nostro Filippo Nigro. In un certo senso, sono tutte “facce” d’altri tempi, la cui presenza è verosimile oggi come nel XVIII secolo. Come si è svolto il casting?
Beatrice Kruger, la nostra direttrice del casting, ha fatto un lavoro molto accurato. Non esistono personaggi secondari in questo film e quindi gli attori sono stati scelti di conseguenza. Ognuno di loro ha un proprio personale mistero, una natura segreta. Isolda Dychauk, Margarethe nel Faust di Sokurov, appartiene quasi a un’altra dimensione. Charles Dance sembra duro, ma sa mostrare un profondo lato compassionevole: io stesso ero il primo degli spettatori durante la sua performance. Lotte Verbeek sembra venire dallo spazio: non a caso viene da Outlander e da Nothing personal. Sverrir Gudnason è stato una scoperta straordinaria, è estremamente versatile. La maggior parte di loro viene anche dall’esperienza teatrale. Tutti insieme mettono a disposizione del regista una palette straordinaria di sfumature. Il regista è un medium, è solo il motore di un lavoro in cui ogni singola qualità emerge per creare l’inaspettato.
In The Book of Vision sembra aver avuto un ruolo fondamentale la collaborazione con il grande illustratore Lorenzo Ceccotti. Ci può parlare del processo creativo a cui avete dato vita?
Lorenzo e io ci conosciamo da tantissimo tempo, è uno dei miei migliori amici. Sono sue le animazioni di The Dark Side of the Sun. Il suo talento è una ricchezza perché fa da cerniera fra tanti mondi: cinema, illustrazione, videogame. Fra di noi c’è un dialogo senza barriere, uno stimolo reciproco che non fa la minima distinzione fra i mezzi. È come se ogni volta dovessimo reinventare le categorie. Quindi di solito la fase della progettazione è molto dettagliata: io faccio uno storyboard con tutte le scene. In The Book of Vision ci interessava particolarmente la dimensione del fantasy anni ’80, con l’integrazione fra gli effetti visivi in macchina e gli effetti speciali della postproduzione. Una fase vitale, perché ha coinvolto tutti i reparti e tutte le tecnologie a disposizione: dai costumi, come nel caso degli uomini-albero, all’uso di lenti particolari per le riprese. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare con incredibili professionisti come lo scenografo David Crank, che ha lavorato con Paul Thomas Anderson, Steven Spielberg e Terrence Malick. Quindi il lavoro con Lorenzo è stato proprio quello di immaginare il risultato finale e poi collaborare con tutti gli altri per realizzarlo.
Lei aveva collaborato proprio con Terrence Malick e diretto un documentario su di lui. In The Book of Vision Malick ricopre il ruolo di produttore. Cos’ha portato la sua esperienza?
Ho iniziato a collaborare con lui girando Rosy-fingered Dawn, un documentario sulla sua vita e i suoi film. Poi Malick mi ha affidato la regia della seconda unità italiana di The Tree of Life. Ho avuto la possibilità di respirare un set fluido, in cui ogni professionista si trova al posto giusto. Nel 2015 ho curato un libro in cui sono raccolte le testimonianze di alcuni suoi collaboratori e il titolo è Terrence Malick: Rehearsing the Unexpected: è proprio questo il suo contributo più grande, l’imprinting a prepararsi all’inaspettato circondandosi di persone con cui giungere all’obiettivo. Attraverso Malick sono entrato in contatto con Crank, con il compositore Hanan Townshend, che con Federico Pascucci ha creato una colonna sonora particolarissima, e con il direttore della fotografia Joerg Widmer, che secondo me è il più grande realizzatore di inquadrature del cinema contemporaneo. Nei suoi framing gli oggetti hanno sempre un rapporto dinamico e geometrico. È stato un processo piuttosto naturale, che rispecchia l’approccio dei cineasti americani degli anni ‘70. Da Arthur Penn a Irvin Kershner, hanno aiutato quella generazione di registi a debuttare. Non c’era nulla di scontato in quegli anni, nemmeno Star Wars. Nel dirigere L’Impero Colpisce Ancora, Kershner si fece garante della sua importanza nella storia del cinema. Ci fu tantissima resistenza a rendere protagonista Yoda, che era a tutti gli effetti un pupazzo dentro una palude. Oggi sembra semplice, ma il cinema non nasce mai dal nulla. Forse uno dei momenti più belli è proprio la scena di E.T. in cui l’alieno incrocia per un attimo un bambino travestito da Yoda. È un omaggio: sono due personaggi iconici che sanno di avercela fatta. Lo stesso John Cassavetes pensava che E.T. fosse un grandissimo film, che aveva molto da dire sulla contemporaneità. Il cinema è così: crea un mondo alternativo con le sue regole.
«Ogni esperienza interrotta, ogni caduta, ogni amore irrisolto abita uno spazio e un tempo possibile, in continuo divenire. Il cinema è l’espressione più alta di questa potenzialità, un mondo alternativo con una natura propria. La visione è un processo inafferrabile che appartiene a ogni singolo spettatore». Da queste note viene da chiedersi se il film non sia proprio una riflessione sul potere del cinema e dello sguardo in generale. Per questo la storia affonda le radici nel Settecento, il secolo in cui nacque il pantoscopio?
Sicuramente. Il potere della visione unisce ciò che è visivo alla forza della parola. Credo moltissimo anche nella sintesi fra visione e avanzamento tecnologico: non ci interroghiamo ancora abbastanza sull’uso dei robot, che un giorno sarà la consuetudine. Per me il cinema è l’espressione più alta della visione, della vertigine. Ecco perché ho voluto che The Book of Vision fosse un film abbastanza breve, perché è il riflesso di un vortice ininterrotto. C’è una forza mistica nel montaggio cinematografico, una magia nella ricomposizione della narrazione che ha origine nel videogioco. Un film come Avengers: Endgame, con decine di personaggi, è concepibile solo grazie al cambio di quadro del videogioco, che è un cambio di universo. Nel cinema c’è un margine d’accostamento fra le immagini che resta misterioso, è un abisso reale. Cosa c’è fra quelle due immagini? Non si sa, forse è proprio la sintesi che lo spettatore ha trovato per sé e che il regista non può completamente controllare. Ed è bellissimo. Credo che dobbiamo riscoprire proprio questo, il mistero dello sguardo, l’umiltà di lasciarlo germinare.
Chiara Tartagni