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30 anni dopo il disastro, Chad Gracia svela Il Complotto di Chernobyl

30 anni fa l’incidente di Chernobyl ha risvegliato nel mondo l’attenzione sui rischi dell’energia nucleare. Ancora oggi è l’unico grande disastro nucleare riconosciuto ufficialmente come causato da un errore umano. Ma se non si fosse trattato di un incidente? È questa la domanda che si pone Il Complotto di ChernobylThe Russian Woodpecker, il documentario firmato da Chad Gracia e vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Festival 2015. Il film sarà nei cinema da giovedì 7 aprile.

Fedor nel 1986 aveva solo quattro anni. Quando sceglie d’indagare su quella catastrofe, arriva a scoprire la Duga, una gigantesca antenna che doveva interferire con le comunicazioni occidentali e infiltrarle di propaganda sovietica. Una struttura che non ha mai funzionato e che, forse, non è estranea allo scoppio del reattore. Nel bel mezzo della rivoluzione ucraina, Fedor porta alla luce una verità pericolosa per sé e per chi gli sta accanto, in un thriller politico scandito dal rumore inquietante e cadenzato della minacciosa Duga, simile in tutto e per tutto a quello di un grosso picchio.

Vi riportiamo ora di seguito l’intervista rilasciata dal regista Chad Gracia.

Come hai conosciuto Fedor Alexandrovich e perché ritieni che la sua storia sia così importante?

Ho lavorato a lungo in teatro e stavo producendo uno spettacolo teatrale a Kiev basato su Anna Karenina. Fedor era lo scenografo. Durante le prove, continuava a prendermi da parte e raccontarmi di questo “Picchio Russo”. Il mio russo non è proprio fluente – pensavo che volesse portarmi allo zoo o in una riserva naturale per vedere qualche uccello. Per circa sei settimana ha continuato a parlarmi di questo “Picchio”. Alla fine ho fatto una rapida ricerca su Google e ho scoperto che il Picchio Russo era un segnale che aveva raggiunto le radio frequenze europee e americane durante la Guerra Fredda destando grande preoccupazione. Io non ne avevo mai sentito parlare e così tutte le persone di mia conoscenza a cui ho posto la questione. Così ho pensato che sarebbe stato carino fare un breve documentario di una decina di minuti dove avremmo chiesto a un po’ di persone che cosa fosse questo Picchio Russo, magari riuscendo così a far tacere alcune teorie cospirazioniste che al tempo imperversavano in Occidente, come che si trattasse di un qualche strumento per il controllo mentale.

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In che momento l’idea per un cortometraggio si è trasformata nel tuo primo film?

L’idea iniziale era di mettere il corto su Youtube per farlo vedere ai miei amici. Doveva essere un film investigativo breve e molto tradizionale, con le interviste ad alcuni scienziati e delle riprese dell’antenna da lontano, dato che si trova nella zona radioattiva di Chernobyl. Ma quando abbiamo fatto il primo incontro per parlare del documentario, mi sono reso conto che Fedor aveva una visione molto diversa dell’opera. Voleva portare in vita questa sorta di ricerca riguardo Un antenna che continuava a vedere nei suoi sogni, un progetto che tra le altre cose prevedeva di costruire una zattera di specchi e farla veleggiare su un mare radioattivo. È stato quello il momento in cui mi sono reso conto che il film non sarebbe stato completato in un week-end. Ma Fedor è un tipo così affascinante – e coinvolgente. Ho deciso di mettere maggiori risorse per realizzare la sua visione e creare un corto di 15 minuti da mettere su Vimeo. Abbiamo iniziato le riprese, ma ho cominciato a pensare al film come a un lungometraggio solo quando Fedor ha svelato la possibilità che ci fosse un responsabile del disastro di cui il mondo non sapeva nulla, un vero e proprio criminale. E a quel punto stavamo lavorando al progetto già da sei settimane.

La storia del film è assurda – all’inizio sembra un episodio di X-Files. Hai mai dubitato delle dichiarazioni di Fedor?

Sono ovviamente scettico nei confronti della maggior parte delle teorie del complotto, ma penso che finché i file e gli archivi riguardanti Chernobyl non saranno desecretati non potremo mai sapere la verità su quanto è accaduto. Ciò che conta è che Fedor sta facendo domande e sottolinea delle incoerenze in ciò che ci è stato raccontato. La gente in Occidente crede che Chernobyl sia un caso chiuso, ma in realtà ci sono molte domande irrisolte e molto materiale falsificato, a riprova che c’è un qualche tipo di insabbiamento. Numerose commissioni del Governo ucraino hanno richiesto accesso a importanti documenti sul disastro di Chernobyl, ma il permesso è stato negato dalla Russia. Non credo che possiamo sapere al cento per cento se la teoria di Fedor è giusta o sbagliata. Prima dovremmo vedere quei file. Per me comunque il film riguarda prima di tutto il percorso psicologico di Fedor, e solo secondariamente il dettaglio di ciò che sostiene.

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In quale momento delle riprese questa ricerca che doveva essere solo di Fedor è diventata un viaggio che hai sentito tuo?

Solo verso la fine, quando Fedor ha iniziato a darmi informazioni sbagliate e a comportarsi in modo strano. Arrivati a quel punto ero confuso – non sapevo cosa stesse succedendo. La rivoluzione Ucraina stava diventando sempre più pericolosa, così abbiamo messo una telecamera nascosta addosso ad Artem, il direttore della fotografia, perché andasse a parlare con Fedor. È solo a quel punto che abbiamo scoperto che la polizia segreta ucraina lo stava minacciando. Fino a quel momento io mi ero limitato a seguirlo, trovare per lui archivisti, storici, ricercatori e aiuti logistici. Era il viaggio di Fedor, finché qualcuno non ha ribaltato le carte in tavola e Fedor ha smesso di cercare la verità. Era diventato sospettoso nei miei confronti perché il KGB ucraino gli aveva detto che stavo lavorando per la CIA – quindi Fedor voleva mettermi addosso delle telecamere nascoste e spiarmi. Ho deciso di reagire mettendo io addosso a lui delle telecamere nascoste. Abbiamo continuato a fingere di lavorare insieme sullo stesso progetto, ma in realtà di nascosto stavamo filmandoci l’un l’altro per una semplice questione di paranoia. Appena scoprii che era stato minacciato, capii perché era cambiato A quel punto, volevo sapere la verità tanto quanto lo voleva lui, e ultimare il film diventò un obiettivo totalizzante.

Ti preoccupava l’idea di entrare nella Zona di Alienazione di Chernobyl? Quali furono i tuoi pensieri quando ci entrasti per la prima volta?

La mia preoccupazione principale era verificare in ogni istante le rilevazioni del contatore Geiger – perché desidero una vita lunga e produttiva! Chernobyl è un posto strano e inquietante. Ci sono molti luoghi abbandonati nel mondo che nel corso degli anni sono finiti in rovina. Ma nel caso di Chernobyl agli abitanti avevano detto che sarebbero stati via tre giorni e invece non tornarono mai più. A dire la verità, era molto bello e silenzioso – c’erano molti uccelli. Ci sembrava evidente che la natura stava prendendo il  sopravvento.

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Il finale della tua storia mette i brividi – usciamo dalla sala con il desiderio di sapere di più. Cos’è successo dopo la fine delle riprese?

La cosa più importante che è successa dopo la fine della produzione del documentario è stata la comparsa di un nuovo segnale Picchio Russo, che non proveniva dalla Duga, ma da una struttura simile in Russia. Inoltre, appena ce ne siamo andati il Governo Ucraino è caduto e la Russia ha invaso la Crimea e iniziato una guerra civile – direi che sono successe parecchie cose. Sin dall’inizio del progetto Fedor sosteneva che la Russia sarebbe tornata in Ucraina e tutti pensavano che fosse pazzo. Putin iniziò la sua aggressione militare dell’Ucraina solo dopo le Olimpiadi di Sochi. Se qualcuno un anno prima avesse detto che la Russia avrebbe annesso la Crimea nessuno l’avrebbe preso sul serio. Ma Fedor aveva iniziato a metterci in guardia dal ritorno della Russia molto tempo addietro. Allora non c’era motivo di credere che sarebbero successe tutte queste cose. Questo è un aspetto di Fedor che mi piace – lui stesso è una specie di antenna. In qualità di artista, è riuscito a recepire tutti i segnali di ciò che sarebbe accaduto.

Negli anni Novanta hai vissuto per un po’ a Mosca – qual è la differenza tra la Russia che ricordi e quella di Putin?

Il cambiamento più grande e più triste è che nel ’91 quando dicevo di essere Americano ogni russo che incontrassi mi abbracciava e mi invitava a casa sua. Brindavamo all’amicizia tra Russia e America – erano eccitati all’idea di scoprire cosa volesse dire vivere in una società occidentale moderna e dotata di un libero mercato. Dall’inizio della guerra sono stato qui solo per poco tempo, ed ero sotto copertura, ma ho letto di persone avvicinate nelle strade e colpite in faccia solo per il fatto di parlare inglese o di venire dall’America. Anche i miei amici russi a New York ora sono spaventati. Credo che la colpa sia soprattutto di Putin, anche se pure noi in Occidente non siamo del tutto innocenti, per come abbiamo gestito le cose. Ma direi che il 90 per cento della colpa va a Putin e alla sua propaganda e demonizzazione dell’Occidente. E il cambiamento è stato enorme, praticamente un ritorno ai valori e alle tattiche dell’età sovietica. Nel ’91 o nel ’92 in Russia si poteva diffondere ogni tipo di contenuto, sia nei giornali che in tv. La Russia era per certi versi una “Far West” – e c’erano alcuni aspetti negativi – ma nessuno aveva paura di essere ucciso dalla polizia segreta se avesse pubblicato contenuti antigovernativi. Ora la stampa in Russia è quasi totalmente sotto il controllo degli amici di Putin; Internet è censurato, Facebook compreso. Per molti versi è una situazione peggiore di quella che c’era negli anni Ottanta. Alla fine della Guerra Fredda, nessuno credeva più nella propaganda sovietica. Ora ti trovi in una situazione in cui dall’85 al 90 per cento della popolazione crede che l’Ucraina sia stata invasa dai Nazisti supportati dall’America. La propaganda funziona. Putin è molto più intelligente della maggior parte dei leader sovietici recenti – pieno com’è di nazionalismo e patriottismo. Come tutti noi sappiamo, si tratta di una combinazione di forze pericolosa e potente.

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La geopolitica gioca un ruolo fondamentale in tutto ciò che fai, compresa la realizzazione dei tuoi film. Qual è stata la maggiore difficoltà, come filmmaker, nel catturare un tema vasto come la geopolitica e dargli un senso?

La parte più difficile era che stavamo cercando di girare un cortometraggio che si svolgeva dopo mille anni di Storia dell’Est Europa, cercando di trasmettere i contenuti a un pubblico occidentale. In America, per esempio, pochi sanno che negli anni Trenta milioni di Ucraini sono stati lasciati morire di fame dai Sovietici. La Storia ha un ruolo importante in tutto ciò che succede nel nostro film. È stata una sfida per me riuscire a dare al pubblico il contesto per comprendere ciò che avrebbe visto. È una cosa che vale per qualunque situazione geopolitica complessa: ci sono sempre memorie profonde e radicate di ciò che è accaduto molto tempo prima. In qualità di narratore, è stato difficile riuscire a veicolare tutto questo portato storico, perché per catturare l’attenzione del pubblico non puoi perdere troppo tempo in preamboli. Così abbiamo provato a disseminare questi temi storici e geopolitici nella narrazione in modo che non rallentassero il ritmo da thriller che ritenevo il più adatto a raccontare la storia di Fedor. Per questo siamo andati in prima linea e abbiamo ripreso tutte quelle persone, e per questo le indagini di Fedor hanno una componente quasi eroica: i suoi antenati sono stati uccisi dai sovietici, mandati nei gulag e obbligati a rinunciare alle proprie famiglie; lui stesso è stato contaminato dalle radiazioni di Chernobyl. Se non conosci i dettagli storici dietro le sue vicende, non puoi capire perché è così turbato e anche un po’ matto. Immagina che per tutta la tua vita la gente ti abbia detto che sei radioattivo. Chiunque al suo posto avrebbe una visione del mondo eccentrica!

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