The Last Of Us (1)

Da videogioco a serie TV, il linguaggio e l’efficacia di The Last of Us

Da poche settimane in esclusiva sulla statunitense HBO Max e in contemporanea in tutto il mondo, è disponibile la nuova serie TV The Last of Us. Un episodio a settimana per un totale di nove – da noi disponibili su Sky/NOW sia in versione originale che doppiata – per una produzione che sembra avere l’ingrato compito di conferire dignità ad un mondo e ad un mercato, quello videoludico, le cui trasposizioni sul grande schermo si sono (quasi) sempre rivelate un fallimento. Ma questo caso sembra diverso. Scopriamo insieme perché.

The Last of Us (da qui in avanti anche TLOU) è un gioco d’avventura uscito quasi dieci anni fa, nel giugno 2013, ed è considerato dalla critica una delle migliori opere videoludiche di stampo narrativo. Una storia di un viaggio in cui un uomo, Joel, deve accompagnare una ragazzina, Ellie, lungo un percorso tortuoso: un’America tornata selvaggia dopo una terribile epidemia causata da un fungo, il Cordyceps, che ha ridotto gli uomini ad un stato simil-zombie. Ma il cuore del TLOU televisivo non è tanto l’ennesima riproposizione di un mondo post-apocalittico preda di morti viventi, è il rapporto tra i personaggi. Un uomo ferito e amareggiato che vive nel dolore del passato, e il suo rapporto con una ragazzina che, al contrario, ha sete di sopravvivenza e di futuro.

The Last of Us nasce dalla casa di produzione Naughty Dog, nota per la serie di videogiochi Crash Bandicoot, un vero successo per la Playstation di prima generazione negli anni’ 90, e successivamente di Uncharted negli anni 2000, una saga con protagonista l’archeologo Nathan Drake, un novello Indiana Jones. Ad un avventura dinamica univa un forte e profondo comparto narrativo dovuto all’autore, Neil Druckmann, che qualche anno dopo, insieme al regista Bruce Straley, riuscirà a realizzare TLOU, immediato successo con milioni di copie vendute, un seguito e un remastered. Ovvio che le case di produzione volessero monetizzare un tale franchise, ma i precedenti di trasposizione da game a film non sono lusinghieri. Senza scomodare il terribile Super Mario Bros del 1993, basta pensare proprio al recente Uncharted portato sullo schermo l’anno scorso, con protagonista Tom Holland, l’ultimo Spider Man cinematografico. Una pellicola che ha sì performato bene al botteghino, ma che non ha segnato quella trasposizione che il mondo dei videogiochi merita da tempo. Forse è proprio questo il pensiero che si è insinuato in Naughty Dog per TLOU. Se il materiale di partenza è ritenuto eccezionale, e non si vuole replicare ciò che è stato fatto per Uncharted, occorre cambiare stile per superare questa sfida.

The Last Of Us

Allora, se il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. E i duri, qui, sono quelli della HBO, il network americano che ha segnato la storia della TV recente, dai Soprano a Games of Thrones. Ecco allora non solo lo showrunner dell’acclamata Chernobyl, Craig Mazin, ma anche l’ormai affermato Pedro Pascal nel ruolo di Joel e la giovane e promettente Bella Ramsey in quelli di Ellie. E soprattutto lo stesso Druckmann, a rassicurare i fan, a portare il cuore del videogioco anche nella serie, a raccontare la stessa storia, ma in un altro modo. 

Una rapida carrellata del contesto. L’archetipo degli zombie al cinema, più come satira sociale che horror fine a se stesso, nasce nel 1968 con La notte dei morti viventi di George A. Romero, con una mitologia che viene aggiornata prima nel 2002 dal punto di vista estetico, con le creature più veloci, dinamiche e scatenate del 28 giorni dopo di Danny Boyle, e poi nel 2003 a livello di popolarità grazie al fumetto di Robert Kirkman The Walking Dead, e alla relativa serie TV. Ma se all’apparenza TLOU attinge al genere zombie, il suo cuore nasce da La strada, il romanzo-capolavoro di Cormac McCarthy, premio Pulitzer 2006 poi trasposto nel grandioso e struggente film del 2009, il The Road di John Hillcoat con Viggo Mortensen. Un mondo post-apocalittico non meglio identificato, un padre allo stremo determinato a portare in salvo il figlio, uno scenario doloroso e senza speranza. Da allora la narrazione della relazione paterna è completamente sdoganato, forse un po’ inflazionato anche nelle narrazioni di genere. Il cinecomic Logan (2017) con il mutante Wolverine e la piccola X23 nelle foreste americane, oppure lo spinoff di Guerre Stellari, lo sci-fy The Mandalorian, con il guerriero protagonista (tra l’altro, sempre Pedro Pascal) e Baby-Yoda attraverso la galassia selvaggia. Ma TLOU aggiunge qualcosa di nuovo e di contemporaneo.

The Last Of Us (3)

Parliamo infatti del linguaggio visivo ed emotivo, uno degli elementi fondanti di TLOU. Si riconosce che è un videogioco? In alcuni tratti sì: nel primo episodio, la fuga in auto pone lo spettatore esattamente al centro dell’abitacolo, e la scelta di dove portare l’auto, trovandosi di fronte a strade senza uscite, brusche interruzioni o cambi di rotta improvvisi – è tipica di quella nostra decisionalità che esprimiamo attraverso il joystick. Nel secondo episodio, con i protagonisti che guardano lo scenario da lontano, ammirando palazzi in decadenza con la telecamera dietro le spalle, ricalca fedelmente un’estetica da videogioco di terza persona. Questi dettagli potrebbero costituire sia fan-service, ma anche piccoli segnali di una narrazione ibrida che assorbe le peculiarità del videogioco, le digerisce e le include nella serialità televisiva. 

Certo, del videogioco si perde un più fitto coinvolgimento – solitamente sei tu che decidi se, come e quando eseguire certi compiti – la propria libertà di azione e iniziativa personale – si corre o si indugia, si lotta oppure ci si nasconde – ma anche quella malinconia solitaria di affrontare il contesto a modo proprio – esplorare o meno un ambiente superfluo per la missione, ma che però si trova interessante per approfondire la storia o lo scenario. O semplicemente per crogiolarti nell’atmosfera da post-apocalisse. Ma di sicuro si guadagna in narrazione: ciò che magari è presente nel videogioco come un indizio, una lettera, un documento, nella serie può diventare un flashback o una storia a sé stante. Ricostruire da un quotidiano come si è sviluppata l’epidemia di Cordyceps è differente dall’osservare le persone subirne i primi effetti o vederle cercare di comprendere le conseguenze di qualcosa di così enorme e distruttivo. In questo caso specifico, è ancora più efficace per un pubblico che ha superato proprio un’esperienza simile… e noi veniamo proprio da una pandemia di Covid. Date tutte queste premesse, pareva arduo catturare la nostra attenzione. Eppure ci sentiamo ingaggiati. 

The Last Of Us (2)

Insomma, se TLOU sembrava essere l’ennesima serie sugli zombie, non lo è, perché i mostri vengono ben in secondo piano. Se rischiava di essere una trasposizione fallace dal videogioco, in realtà sfrutta al meglio temi e linguaggi, senza banalizzare ma anzi trovando una sua estetica e ritmo. E se infine c’era la paura che fosse semplicemente una serie mediocre, l’entusiasmante riscontro di critica e pubblico già alla visione del terzo episodio, giudicato uno dei capolavori della produzione televisiva recente  – disponibile in italiano da lunedì 6 febbraio – dovrebbe dissipare ogni dubbio. The Last of Us funziona. Eccome!

Enrico Banfo

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