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Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno, arriva al cinema l’Orso d’Oro di Diao Ynan

Esce oggi al cinema Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno, il capolavoro del cinese Diao Ynan che si è aggiudicato l’Orso d’Oro al 64° Festival di Berlino, nel 2014.


Cina settentrionale, estate 1999. L’ispettore Zhang indaga sul caso di un cadavere fatto a pezzi i cui resti vengono rinvenuti in diverse fabbriche di carbone della provincia. In seguito a un inaspettato conflitto a fuoco in cui perdono la vita due colleghi, rinuncia però a proseguire le indagini, e viene trasferito in una fabbrica come guardia di sicurezza.

Nell’inverno 2004, Zhang è un uomo disilluso, psichicamente provato e facilmente incline all’alcool. Quando un suo amico poliziotto gli riferisce di un caso analogo a quello di cinque anni prima, Zhang vede la possibilità di affrontare i fantasmi del passato e riscattarsi come uomo. Aiutato da un ex collega, Zhang decide di investigare sul caso e scopre che le vittime sono collegate a Wu Zhizhen, una giovane donna che lavora in una lavanderia. Fingendosi cliente, Zhang comincia a osservarla e ben presto se ne innamora.

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Di seguito, vi presentiamo l’intervista rilasciata dal regista e sceneggiatore Diao Ynan a Tony Rayns nel gennaio del 2014.

La tua sceneggiatura era ispirata a fatti realmente avvenuti, oppure, nel caso sia completamente inventata, cosa ti ha fatto pensare al corpo smembrato e disperso che apre la trama?

Difficilmente una storia può essere completamente inventata. Quando tu crei qualcosa, frammenti di vita reale che giacciono sepolti negli angoli remoti della tua mente inevitabilmente salgono in superficie. Si potrebbe anche dire che il processo di creazione artistica consista nel far lavorare i ricordi. Nella Cina di oggi stanno avvenendo molte cose e alcune di queste sono più assurde di quanto si possa vedere in un film o leggere in un romanzo. Per gli artisti non è poi così insolito trovare questo tipo di assurdità della vita reale ingarbugliate con le verità che cercano di proporre nei loro lavori. I modi in cui verità e assurdo si legano assieme aprono la strada a infinite possibilità, che io trovo davvero interessanti e affascinanti.

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Hai ambientato il film in una città di provincia, non molto raffinata o cosmopolita. Perché?

Ai grandi centri urbani, preferisco le piccole città e i luoghi fuori mano. Il cambiamento è più lento in provincia, e quegli spazi consentono alle realtà del presente e del passato di coesistere. Credo che questo renda la memoria una risorsa più flessibile, e di conseguenza mi permette di esplorare meglio i miei temi. Se avessi voluto girare un thriller gotico avrei scelto un posto desolato, un luogo decadente, misterioso e selvaggio. Comunque la scelta della mia ambientazione non aveva nessuna implicazione in termini di sociologia delle piccole città.

Sto raccontando una storia di delitti orripilanti e questo richiede un certo tipo di ambiente per sottolinearne l’autenticità. Non credo che questo tipo di storia avrebbe funzionato in una grande città, con un ambiente cosmopolita. Inoltre, ho scelto la naturale validità della vita più che una compilation di fatti. Ci sono molti posti in Cina che possiedono in sé le qualità surreali di cui avevo bisogno. Mi sento fortunato ad aver avuto un tale imbarazzo della scelta!

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Tutto il tuo lavoro cinematografico è toccato dalla questione della fiducia: quanto possiamo (o dobbiamo) credere gli uni negli altri. Perché sei attirato da questo tema?

Non si tratta propriamente di fiducia, piuttosto di come entriamo nel territorio di qualcun altro. Le investigazioni della polizia sono un esempio lampante. Quando la polizia affronta un’indagine, tra la verità concreta e quella apparente inizia a crearsi un gioco di specchi. La polizia potrebbe arrivare alla conclusione di aver afferrato la verità reale, ma non è detto che sia davvero così.

Il processo di ricerca e di definizione della realtà, spesso estenuante, genera tensione drammatica. La nostra esperienza pratica ci dice che il divario tra realtà e apparenza concorrerà a influenzare il modo in cui “crediamo” gli uni negli altri; in casi estremi ci può anche portare a darci per vinti. Ma quando fai un film, la tensione tra il modo in cui le cose appaiono e quello in cui sono davvero coincide con lo sviluppo della narrazione verso il climax. Un tale discorso potrebbe sembrare molto teorico, in realtà spiega bene il modo con il quale si coinvolgono le emozioni dello spettatore.

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Il titolo cinese e quello internazionale sono molto diversi. Il titolo internazionale ovviamente fa riferimento ai due principali motivi del film, il carbone nero e il ghiaccio bianco. Il titolo cinese (che significa “Fuochi d’artificio in pieno giorno”) allude a una precisa scena del film ma al tempo stesso suggerisce qualcosa di più metaforico – soprattutto considerando che gran parte del film si svolge di notte. I due titoli puntano a diversi aspetti del film?

La differenza tra i due titoli riflette la differenza tra realtà e sogno. Carbone e ghiaccio sono reali; i fuochi d’artificio in pieno giorno sono surreali. Sono due facce della stessa medaglia. Il carbone nero è dove i brandelli di cadavere sono ritrovati, mentre il ghiaccio bianco fa riferimento al luogo di uno dei delitti; messi assieme tratteggiano i fatti del caso di omicidio. Se non hai visto il film, il titolo internazionale propone un contrasto netto, ma questa nettezza sfuma in qualcosa di diverso man mano che vedi il film e constati come gli elementi del caso si incastrano tra loro.

Tutto questo concorre a irrobustire gli aspetti realistici del film. Fuochi d’Artificio in Pieno Giorno è quasi una fantasia, una sorta di catarsi che le persone usano per proteggersi dagli aspetti più duri del mondo che li circonda. Usando questo titolo suggerisco ovviamente che i cinesi siano oggi alla disperata ricerca di questo tipo di catarsi. Ho cercato di evitare la trappola del sentimentalismo umanista, e non volevo che il film non avesse altro da offrire che una crudele centrifuga di temi romantici. Ma ho voluto lasciare una forte impressione! Quel che sto cercando di rappresentare qui è la nostra capacità di fare scelte morali. Chiedo alle persone di tenersi pronte per intraprendere azioni decisive. Quando lo fanno, operano delle scelte – anziché seguire ciecamente degli ordini senza metterli in dubbio.

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Il destino del protagonista Zhang Zili (degradato al ruolo di guardia di sicurezza, venendo privato dell’uniforme da poliziotto) inevitabilmente ci riporta alla mente il tuo primo film, Uniform, dove un giovane uomo si finge poliziotto. C’è qualche connessione tra i due film?

Tutti i miei personaggi si muovono sul confine tra vita e sogno. Le loro esistenze sono precarie; si può dire che ingannino la loro stessa vita. Simpatizzo molto per loro. Cerco di aiutarli a difendersi, ed è questa la guida interiore che alimenta anche i miei lavori teatrali. Sono per me quasi degli alter-ego, rappresentanti delle mie fantasticherie. Sono un po’ egoisti, cinici, solitari e approfittatori. Non ho idea di dove stiano andando o che fine faranno. Ad ogni modo non chiedono di essere compresi. Sono prigionieri dei loro stessi atteggiamenti mentali. Vivono nei loro propri mondi.

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