INCONTRO CON LA OLIVETTI 2

Il Progresso sognato, vissuto e perduto ne La Zuppa del Demonio, il documentario di Davide Ferrario che ha conquistato Venezia

Tutto dovete temere dal passato ammuffito. Tutto dovete sperare dall’Avvenire. Abbiate fiducia nel progresso, che ha sempre ragione, anche quando ha torto, perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza. E guardatevi dall’intentare dei processi al Progresso. Sia pure impostore, perfido, assassino, ladro, incendiario, il Progresso ha sempre ragione”. Così scriveva Filippo Tommaso Marinetti nel 1915 in La Guerra Sola Igiene del Mondo – Nascita di un’Estetica Futurista.

Si tratta di una delle citazioni raccolte ne La Zuppa del Demonio, il documentario di Davide Ferrario che, dopo essere stato presentato Fuori Concorso alle recente Mostra di Venezia, sarà da domani, 11 settembre, nei nostri cinema.

La Zuppa del Demonio ragiona sul senso del cinema industriale (le immagini fanno parte del meraviglioso materiale custodito a Ivrea, città della storica Olivetti) e mette al centro il tema del progresso: l’idea di un futuro migliore, che oggi sembra drammaticamente lontana, ma che ha prodotto un immaginario capace di segnare l’immaginario di un intero secolo. Vengono trattati i grandi temi che hanno caratterizzato lo sviluppo industriale del XX secolo: dalle grandi opere degli anni ’10 fino al più recente pionierismo nel campo dell’informatica.

Il film è nato da un’idea di Sergio Tolfetti, direttore dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa, una struttura del Centro Sperimentale di Cinematografia: “Il cinema d’impresa ha rappresentato nel corso del Novecento un settore importante della politica industriale” ha spiegato Tolfetti. “Migliaia di documentari hanno affrontato tutti gli aspetti della vita aziendale: la produzione, i film di formazione per i lavoratori, la documentazione dei sistemi produttivi e dei prodotti; il rapporto con i consumatori attraverso la pubblicità e dunque l’evoluzione dei modelli di società. Ma il cinema industriale dedica particolare attenzione anche alle relazioni umane, attraverso la comunicazione delle “opere sociali”, tipiche di un’epoca in cui la fabbrica non voleva essere soltanto luogo di lavoro, ma presenza totalizzante nel tempo libero, nella socialità, nella risposta ai bisogni, attraverso il dopolavoro, le colonie per ragazzi, i centri culturali e sportivi, le attività sanitarie e assistenziali“.

Battaglia Terme, 1968. Veduta d’insieme del reparto verniciatura delle Officine Elettromeccaniche  Galileo  S.p.a., con un  operaio  che agisce  su  di  un pannello di controllo (Foto dall’Archivio Edison presso il Centro per la cultura d'impresa)

Battaglia Terme, 1968. Veduta d’insieme del reparto verniciatura delle Officine Elettromeccaniche Galileo S.p.a., con un operaio che agisce su di un pannello di controllo
(Foto dall’Archivio Edison presso il Centro per la cultura d’impresa)

Riproponiamo ora di seguito una conversazione rilasciata dal regista Davide Ferrario:

Come ha approcciato l’idea di fare un film solo con materiale d’archivio?

In verità non è la prima volta che faccio un lavoro del genere. Nel 1992 realizzai una serie televisiva in sei puntate, American Supermarket, che fu venduta in tutto il mondo. Si trattava del montaggio di filmati educativi, spot, documentari, promozionali, film del governo USA degli anni ’40 e ’50: tutto senza una parola di commento, lasciando al montaggio e alla musica la costruzione del senso. Ma altre volte ho lavorato in modo originale con quello che oggi si definisce found footage. Sia in La Strada di Levi che in Piazza Garibaldi il materiale d’archivio è usato agli antipodi rispetto ai documentari classici, dove di solito serve solo per illustrare quello che dice il commento parlato. Io, piuttosto, sono affascinato dalla retorica del discorso filmico originale (intendo retorica in senso strettamente tecnico): mi piace pensare che si possa prendere quel “codice” e orientarlo per fargli dire qualcosa di nuovo. O meglio, di mio personale.

Non c’è il pericolo di una forzatura, in questo?

Cioè, se si rischia di stravolgere il senso originale? Beh, è esattamente quello che cerco. Ma non per far dire al materiale qualcosa di diverso dallo scopo con cui era stato fatto. Voglio che il mio intervento sia chiaro. Voglio proprio che sia questa “differenza” il senso del discorso. D’altra parte, sappiamo bene che ogni discorso sull’“oggettività” del documentario è pura ipocrisia.

Tramezzina, Lago di Como 1970. Presentazione della campagna pubblicitaria “Abital… sulla cresta dell’onda”. I giornalisti ospiti sul battello assistono alle evoluzioni in volo di un uomo che indossa abiti Abital (Foto dall’Archivio Edison presso il Centro per la cultura d'impresa)

Tramezzina, Lago di Como 1970. Presentazione della campagna pubblicitaria “Abital… sulla cresta dell’onda”. I giornalisti ospiti sul battello assistono alle evoluzioni in volo di un uomo che indossa abiti Abital
(Foto dall’Archivio Edison presso il Centro per la cultura d’impresa)

Com’è nata l’idea del film?

È merito di Sergio Toffetti. Da anni insisteva perché dessi un’occhiata ai materiali dell’Archivio di Ivrea. Io nicchiavo, oppure ero occupato. Quando finalmente ho cominciato a vedere i film mi è subito venuta l’intuizione di raccontare la storia del progresso nel Novecento. O meglio, la storia dell’idea di progresso. Un’utopia, quello dello sviluppo senza limiti, che la mia generazione conosce bene perché è in quell’atmosfera che siamo cresciuti. Potevi essere di destra o di sinistra, ma il progresso tecnologico era un bene in sé. Infatti, la corsa allo spazio attirava sia i russi che gli americani. Fino a metà anni ’70 lo “sviluppo” è stato un dogma indiscutibile: poi è arrivata la prima crisi petrolifera, e contemporaneamente hanno preso piede le preoccupazioni ambientaliste. Toffetti ironizza sul fatto che si è passati dallo “sviluppo senza limiti” di quegli anni ai “limiti senza sviluppo” di oggi.

Da “Marinai d’alta montagna” di Gip Tortorella. La costruzione di una diga sul ghiacciaio Sabbione nel 1952 (Fotogramma dall’Archivio Nazionale Cinema d'Impresa)

Da “Marinai d’alta montagna” di Gip Tortorella. La costruzione di una diga sul ghiacciaio Sabbione nel 1952
(Fotogramma dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa)

Il film sembra portare con sé un sentimento contradditorio. Da una parte c’è l’evidente scarto culturale tra la sfrenata positività di quei decenni e i tanti dubbi di oggi; dall’altra pare quasi che ci sia una nostalgia per quei tempi…

Lo dice molto bene Giorgio Bocca nella parte finale del film: “Le cose che oggi ci appaiono orribili allora ci sembravano bellissime; erano tempi irripetibili, e felici…”. È ovvio che quando oggi vedi gli olivi centenari abbattuti dalle ruspe per far posto al tubificio di Taranto scuoti la testa allibito, sapendo tutto quello che è venuto dopo. Ma l’entusiasmo di allora era sincero: ed è proprio quello che ho cercato di raccontare. Infatti nel film non c’è pressoché mai l’ironia che è invece la cifra di American Supermarket, che è sostanzialmente una satira del consumismo americano. No, davvero in Italia c’è stato un “miracolo”: un miracolo fatto dalla combinazione di molti elementi, ma che ha coinvolto tutta una società. Certo oggi sarebbe facile ironizzare sul petrolchimico di Gela e sulle cattedrali industriali del sud: ma non dimentichiamo l’immagine della gente che dorme nella stessa stanza col cavallo prima dell’arrivo delle fabbriche. È chiaro che alla fine di questa storia c’è un fallimento: ma per un lungo momento l’utopia è sembrata realizzarsi. È bellissimo, per esempio, quello che dice Ermanno Rea e che è citato nel film su cosa significava la fabbrica per i lavoratori meridionali.

Un impianto per la ricerca Agip nei campi della Pianura Padana in Val Basento negli anni ‘50 (Foto dall’Archivio Storico Eni)

Un impianto per la ricerca Agip nei campi della Pianura Padana in Val Basento negli anni ‘50
(Foto dall’Archivio Storico Eni)

In effetti, La Zuppa del Demonio è anche uno straordinario tributo al lavoro e ai lavoratori.

Esattamente. Certo i film erano prodotti dalle aziende e quindi la retorica è quella dell’epica imprenditoriale: ma si capisce benissimo che senza i lavoratori nulla sarebbe stato possibile. Credo che alcune sequenze siano davvero commoventi: penso alla costruzione delle linee elettriche nel dopoguerra; o ai film industriali di Ermanno Olmi. Ci sono ritratti di volti operai che sono straordinari nella loro semplicità e dignità; e struggenti nel loro entusiasmo. Perché le battaglie sindacali si facevano sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro: ma il lavoro in quanto tale, l’opera realizzata, apparteneva a tutti. E questo, per esempio, è un senso comunitario che l’impersonalità del lavoro moderno ha cancellato, credo per sempre.

Firenze 1964. Presentazione della Fiat 850 Berlina  (Foto dal Centro Storico e Museo Fiat)

Firenze 1964. Presentazione della Fiat 850 Berlina
(Foto dal Centro Storico e Museo Fiat)

Ha citato più volte il commento degli scrittori. Come ha lavorato in questo senso?

C’è stata fin dall’inizio l’idea di costruire una sorta di controcanto letterario alle immagini. Parole che confermassero un certo spirito dei tempi oppure se ne dissociassero, per creare una dialettica. Giorgio Mastrorocco, che era stato il mio compagno di viaggio in Piazza Garibaldi, si è incaricato di questa ricerca. Ha trovato una gran quantità di materiale e ovviamente nel film ne è finita solo una parte, ma molto rappresentativa. È anche interessante notare che molti intellettuali, che nel dibattito pubblico avevano posizioni critiche sull’industrialismo, non disdegnavano comunque di scrivere per i film industriali: Pasolini, ad esempio. Ma anche Sciascia. E interessantissimo è il caso di Franco Fortini, che porta nei suoi commenti su commissione uno stile inconfondibile.

(Immagine in copertina da Incontro con la Olivetti di Giorgio Ferroni. Ivrea, 1950. Operaie al montaggio macchine da scrivere nello stabilimento Olivetti di via Jervis – Fotogramma dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa).

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