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M.I.A. – La Cattiva Ragazza Della Musica, una grande artista della vita

Dal 20 al 23 gennaio al cinema M.I.A. – La Cattiva Ragazza Della Musica, il documentario diretto da Steve Loveridge premiato al Sundance Film Festival con il Premio speciale della Giuria.


Matangi Arulpragasm (Maya per gli amici e star di fama mondiale conosciuta con il nome di M.I.A.) è stata per anni un inarrestabile fenomeno della musica, ma nonostante la grande esposizione pubblica e mediatica e i suoi modi di fare schietti e diretti, sotto alcuni aspetti è per molti ancora un enigma, la cui sfera privata e la vita di tutti i giorni sono custodite gelosamente. Questo è il motivo per il quale in molti sono stati sorpresi alla notizia che la cantante avesse dato il suo consenso al compagno di studi Steve Loveridge per la realizzazione di un documentario su di lei, attingendo direttamente al suo archivio personale, un piccolo tesoro incredibilmente ricco di video girati da Maya nel corso della sua vita. Questo insieme di registrazioni, molto personali, ancora grezze e non lavorate, apre una finestra sulle riflessioni più intime dell’artista su diversi temi come l’arte, la politica, l’identità, e invita a riflettere su quanto la confluenza di tutti questi elementi sia stata di fondamentale importanza per lei e la sua crescita artistica e personale.

Maya ha vissuto sulla sua pelle la guerra civile in Sri Lanka e da lì è dovuta fuggire con la sua famiglia quando non aveva ancora compiuto dieci anni per rifugiarsi prima in India e successivamente nel Regno Unito, dove il padre fu accusato di avere presunti legami con il controverso gruppo militante dei Tamil Tigers. Maya è cresciuta come un’immigrata e una rifugiata nella periferia a sud di Londra, un contesto che è stato fondamentale per la sua formazione personale e successivamente per il suo lavoro creativo. Sebbene le prime esperienze di vita siano state per loro estremamente diverse, il destino ha fatto sì che Steve e Maya riuscissero a trovarsi insieme in un contesto artistico che ha consentito di avvicinarsi l’uno all’altra grazie un sentimento comune: la consapevolezza di sapere come ci si sente a essere degli outsiders.

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Nei primi anni, fu grazie alla musica pop e hip hop music che Maya riuscì a provare per la prima volta un senso di appartenenza. “Era attratta dalla musica pop perché era da lì che trovava nutrimento per la sua ispirazione. Le belle arti e la scrittura erano discipline troppo elitarie, fuori dalla sua portata”. Per fortuna c’era la sua telecamera, con la quale ha un rapporto viscerale che non si è mai estinto e che è rafforzato anche da un impulso a fotografare e registrare il mondo intorno a lei e le sue avventure. Senza questo incontro fatidico, non ci sarebbe stato l’immenso archivio da cui attingiamo oggi per la realizzazione del film.

Molti conoscono solo la versione pop star di Maya, siano essi fan o detrattori, ma i suoi filmati raccontano molto di più. Raccontano una Maya schietta, diretta e dalla mente brillante, che guarda dritta in camera e parla del suo essere cresciuta come un’immigrata in situazioni economicamente difficili e a volte ostili; o ancora di quando a 20 anni è tornata in Sri Lanka per ritrovare le proprie radici e i suoi famigliari; o della sua avventura alla fine degli anni ’90 assieme a Justine Frischman e la band Britpop Elastica. I filmati ci mostrano Maya alle prese con quesiti profondi sulla sua identità, un’identità oggi sezionata nel dettaglio e morbosamente esaminata da un nutrito pubblico che non riesce a comprenderla in tutta la sua complessità.

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Il film non vuole essere un classico documentario musicale con spezzoni di interviste e repliche di concerti alla televisione, che mette in scena l’ennesimo caso di un personaggio che ha raggiunto la fama mondiale o che promuove l’artista come un brand di successo. “La pop star Maya è la figura meno presente all’interno del film”, afferma Steve. Ponendo al centro del film la persona di Maya, ho voluto anche cercare di mostrare anche nuovi aspetti del personaggio di M.I.A in quanto artista. Il materiale raccolto in questo schietto e intimo archivio personale rivela Maya come un’attivista dichiarata e mostra come il suo lavoro emerga da un’urgenza personale e dal volersi esporre contro le oppressioni per invocare giustizia. L’impegno di Maya verso la questione dei migranti non è una forma di narcisismo da star: è la storia della sua vita e vuole essere un invito a sviluppare una maggiore consapevolezza del problema.

Il film non vuole schierarsi né contro né dalla parte di Maya in quanto personaggio pubblico. Al contrario, i filmati e le registrazioni della sua vita mettono a tacere ogni sospetto che si tratti di un progetto che travisa la sua storia. Oltre all’essere pervaso dalla fin troppo comune abitudine di dubitare di una donna che racconta la sua esperienza personale, questo tipo di scetticismo diffuso non si cura del fatto che l’identità di Maya non sia così semplice da accettare o che possa non essere per lei un punto di forza. Per tutti coloro che provengono da un background simile a quello di Maya e che hanno vissuto momenti di difficoltà (come le discriminazioni a scuola, l’ignorare la lingua del paese che ti ospita e l’essere costantemente etichettati come “l’altro, il diverso” dalla società che ci circonda), il riuscire ad essere fieri della propria diversità, del proprio status di outsider e dell’unicità della propria esperienza è una vittoria estremamente difficile da raggiungere.

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Il processo di accettazione della propria condizione di immigrata nella vita privata è stato per lei abbastanza difficile, ma farsi carico della sua vera identità intrecciandola con la sua identità pubblica in modo evidente nelle sue performance, nei suoi testi, nella sua musica e nei suoi video, ecco quello è stato un processo di presa di coscienza radicale e fondamentale per lei, M.I.A.

“Maya è un’artista fin nel profondo”.

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