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Mandalorian e l’arte di reinventare di Star Wars

Si è da poco conclusa la distribuzione della seconda stagione di Mandalorian e a breve partiranno le riprese della terza, oltre che delle miniserie The Book of Boba Fett e Obi Wan Kenobi. Con il consolidamento della piattaforma di streaming Disney+, troviamo tutta la saga di Guerre stellari pronta per essere consumata in un unico luogo. Film, serie TV e cartoni animati: un universo di avventure a tutto tondo, espanso poi in modo crossmediale con giocattoli, videogame e fumetti. L’impressione è che le storie in sé passino quasi in secondo piano rispetto richiami di marketing e merchandising, un modus operandi che in effetti George Lucas ha inventato e che oggi Disney persegue alla perfezione. Certo, questi elementi sono ormai imprescindibili per la sopravvivenza di un brand globale come Star Wars, ma talvolta è possibile raggiungere un equilibrio tra il Lato Oscuro della costruzione di media franchise trasversale, e il rispetto dell’autonomia artistica e autoriale. Mandalorian ne è l’esempio perfetto.

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Un western contemporaneo

The Mandalorian è la prima serie in live action del franchise, realizzata con innovative tecnologie soprattutto in questi tempi di ripresa in sicurezza Covid-free. Cronologicamente si colloca 5 anni dopo gli eventi di Episodio VI – Il ritorno dello Jedi e vede come protagonista Pedro Pascal Narcos e Kingsman Il cerchio d’oro – nel ruolo del Mandaloriano del titolo, cacciatore di taglie appartenente a una razza di guerrieri che segue un rigido codice morale, “la via”. La sua missione prevede di recuperare e consegnare quello che scopre essere un bambino alieno, e gli intenti del suo mandante non sono affatto benevoli nei confronti del cucciolo: anziché consegnarlo decide allora di proteggerlo, e questo cambierà radicalmente il suo mondo. Due stagioni da 8 episodi ciascuna che ci offrono uno sguardo sull’universo di Star Wars in chiave western d’autore, che a tratti può ricordare la serie cult Firefly di Joss Wheldon oppure il cartone animato giapponese Cowboy Bebop, che con quest’ultimo condivide un gusto per una colonna sonora ricercata e d’atmosfera. Dietro la serie ci sono i produttori Jon Favreau – regista di numerose pellicole Marvel e Disney, ormai rodato presso la casa di Topolino – e Dave Filoni – sceneggiatore già attivo su parecchie produzioni del franchise stellare – che qui riescono a donare enorme personalità alla narrazione, mentre tra i registi ci sono anche nomi illustri come Robert Rodriguez, Peyton Reed e Bryce Dallas Howard. Il risultato è un racconto calmo ma suggestivo, con pochi dialoghi ma sempre efficaci, ovviamente tanta azione e intensità nei momenti chiave ma soprattutto – sembra banale ma non lo è – emozione.

Un lavoro di sottrazione

Nessuno si sarebbe aspettato che una serie basata su “un cacciatore di taglie a zonzo tra pianeti e pericoli mortali” potesse in realtà racchiudere molto più significato nelle sequenze di attesa, che tra una sparatoria e un inseguimento. Il protagonista colpisce per il suo lavoro di sottrazione, che si concretizza con l’assenza di parole, assenza di espressioni, assenza di gestualità. Questo mandaloriano potrebbe essere un robot, appare come una perfetta macchina da guerra dalla splendente armatura. Eppure quando fissa negli occhi The Child, il piccolo, qualcosa cambia: è disposto a sacrificare la sua reputazione, la sua astronave, la sua vita e addirittura il suo credo, per salvarlo, e il personaggio diventa improvvisamente più solido e sfaccettato, anche solo nell’inclinazione dell’elmo che cela sempre il suo volto, e questo compensa e riempie la lentezza di ogni episodio, dove sostanzialmente capita molto poco. Per parecchie puntate il copione prevede: atterraggio sul pianeta; incontro con personaggio in cerca di aiuto; risoluzione del problema con scene d’azione, infine l’indicazione per la meta successiva. Se la prima stagione crea il mood principalmente western, la seconda riallinea l’eroe solitario nel mondo di Star Wars, con un climax che catalizza lo stress, la paura e le speranze vissute fino a quel momento. E chi, durante la visione di quella sequenza, afferma di non aver avuto gli occhi lucidi… sta mentendo.

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Quando il contenuto trascende il suo contenitore

Nonostante la struttura della serie paragonabile ai livelli di un videogioco, cioè episodi quasi autoconclusivi con in più “il boss da sconfiggere” nei due finali di stagione, il focus della storia è subito diventato il legame tra il Mandaloriano e Baby Yoda. Le relazioni e la profondità dei sentimenti dei protagonisti ha prevalso sul puro gioco di luoghi e personaggi, che chiaramente restano un tassello importante per ricollegare queste avventure al mondo cui appartengono, ma non prevalgono. L’ingresso di Boba Fett o Ashoka Thano, collegamenti o personaggi chiave in altre produzioni del brand, non scadono mai in “strizzate d’occhio” per pure fan-service, ma sono funzionali alla storia di Mando. In termini puramente narrativi, di ritmo e di coinvolgimento dello spettatore, questa serie compie il passo che le trilogie Prequel e Sequel non sono riusciti a imprimere sul terreno.

Per questi film, il fatto che le vicende si svolgano sull’onnipresente pianeta di Tatooine, che i protagonisti appartengano alla famiglia Skywalker, che viaggino sul Millennium Falcon e che siano accompagnati dai droidi C1P8 e R2D2, non sono affatto sufficienti a dare nuova linfa vitale all’immaginario di Star Wars. Sicuramente arricchiscono l’intreccio e portano avanti una saga familiare cara al pubblico, ma non è ingrandendo la posta in gioco – prima la Ribellione contro l’Impero, poi il bene contro il male in lotta per il destino dell’intera galassia – che l’epicità del racconto alza proporzionalmente il livello di presa emotiva sullo spettatore. L’universo di Guerre Stellari può essere utilizzato in modo intelligente come sfondo e come collante, ma ciò che si racconta deve essere qualcosa di altrettanto solido. La forza di Mandalorian è quella di non crogiolarsi all’interno della sua cornice, ma di sfruttarla per esprimersi diversamente.

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L’uso intelligente di un universo narrativo

Analizzando le opere del franchise, si potrebbe quasi dire che più ci si allontana dalla famiglia Skywalker, più la narrazione offre spunti maggiormente vivaci, originali e meglio accolti dalla critica. Nel 2003 la casa di produzione BioWare aveva dato alla luce Knights of the Old Republic (KotOR), un gioco di ruolo per PC e console Xbox ambientato ben 4.000 anni prima degli eventi di Episodio IV – Una nuova speranza. Nuovi personaggi, dialoghi avvincenti e la possibilità di influenzare il percorso morale del protagonista in base alle scelte del giocatore – verso il Lato Chiaro della Forza oppure il Lato Oscuro – l’hanno reso un piccolo cult, giocato ancora tutt’oggi. Ma anche senza scomodare millenni precedenti o successivi, il film spin-off Rogue One del 2016 è ambientato poco tempo prima di Episodio IV e racconta del manipolo di ribelli che che cercano di impossessarsi dei piani della letale Morte Nera, facendoci enormemente appassionare a personaggi inediti all’interno di un contesto che già conosciamo come le nostre tasche. Se il primo è in realtà un videogame “alla Dungeons & Dragons” che sfrutta al meglio il dinamismo, i dialoghi e le meccaniche ludiche di questo media, il secondo è palesemente un film di guerra, che solo alla fine si riunisce in modo aggraziato e coinvolgente al franchise maggiore. Oggi Mandalorian è un western che percorre la stessa strada: opere solide – a prescindere dall’universo di Star Wars ricamato loro addosso.

Padroneggiare la Forza di un franchise

L’errore imputato alla trilogia più recente di Star Wars è stato proprio quello di voler accontentare lo spettatore, anziché mettersi al servizio di una storia. Episodio VII – Il Risveglio Della Forza è una sorta di remake di Una Nuova Speranza e, in sintesi, confidava nella nostalgia degli appassionati, che si emozionassero per il solo fatto di rivedere Han Solo e Chewbecca sulla loro nave. In effetti questo ha colpito nel segno, ma una volta ingaggiato il pubblico, cosa gli si racconta? Complici cambi di regia e interferenze produttive di Disney, se Episodio VIII sembra seguire una strada autonoma diversa dal precedente, a sua volta l’Episodio IX conclude le vicende aperte nel settimo film quasi abbandonando i solchi tracciati dall’ottavo, sintomo che il “main concept” alla base di questa trilogia ha subito numerosi scossoni e cambi di rotta. Un cortocircuito di intenti dettato sicuramente dalla grande pressione produttiva: questi kolossal sono vittime di grandi calcoli e aspettative economiche perché Hollywood resta sempre un’industria, nel bene o nel male. Ma con il cinema in stand-by e lo streaming come strumento per intercettare nuovi bacini di utenza, le logiche potrebbero cambiare. Da megaproduzioni agguerrite per superare il miliardo di dollari di incasso per un pubblico indifferenziato, ad un’armata di miniserie di impronta autoriale per richiamare target precisi. Madalorian oggi, The Book of Boba Fett in arrivo a dicembre 2021, Obi Wan Kenobi nel 2022 e tante altre ancora.

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Con quest’opera, Favreau e Filoni hanno seguito l’esempio del capostipite della saga, la vicenda archetipica dell’eroe che salva la principessa con una spada magica, un fantasy (con le astronavi). L’eroe di Mandalorian riprende gli stilemi del cowboy solitario e infallibile che si muove nel selvaggio west (dello spazio), centrando il bersaglio proprio per la capacità di concentrarsi su pochi aspetti, ma in modo eccellente e significativo, e in questo modo riescono a calare nuovamente l’universo di Star Wars in un franchise fatto di racconti corali e crossmediali. Come direbbe il protagonista, “questa è la via”.

Enrico Banfo

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