Adesso è diventato anche ufficiale: La Grande Bellezza ha vinto l’Oscar come Miglior Film Straniero. Una notizia che era nell’aria, gioiosamente attesa dopo che il film aveva incassato Golden Globe e premio BAFTA. Quindici anni dopo l’ultima vittoria con La Vita è Bella di Roberto Benigni, l’Italia torna a prendersi i riflettori di Los Angeles nella notte clou del cinema. Tutto questo mentre nelle nostre scuole rischia di sparire tra le materie da insegnare Storia dell’Arte, mentre Pompei continua fatalmente a crollare e mentre un nuovo Governo tenterà un nuova rischiosa scommessa per risollevare le sorti.
Ha vinto un’Italia moralmente perdente e in ginocchio, in cui trionfa la volgarità di party sfrenati, in cui il lifting conta più dell’educazione dei figli, in cui i preti giocano a fare i Masterchef, in cui la criminalità organizzata continua a colpire il sistema nel suo cuore, in cui il degrado delle persone potenti e influenti trova sfogo nel lusso fine a sé stesso, in cui il trash ha spazzato via l’Arte e la cultura di un tempo, in cui una donna che corre nuda e va a sbattere violentemente contro la pietra viene applaudita come grande artista, in cui i giornalisti da cani da guardia diventano cagnolini scodinzolanti, in cui tutto questo accade mentre il Paese va a picco, sullo sfondo, inerme, inconsapevole, perché alla festicciola dei monelli spreconi non è stato invitato.
Se questa è l’immagine dell’Italia che ha vinto l’Oscar, è difficile capire quanto si possa o si debba rimanere soddisfatti. Una società in crisi di valori che danza galvanizzata da candide strisce sul proprio passato. Ed è proprio la figura de La Santa che ce lo ricorda alla fine del film: le radici sono importanti. Un Paese che non vuol conoscere la promessa del mattino perché troppo impegnata a devastarsi nella lunga e buia notte di questi tempi. Un’Italia smarrita, rintronata da vecchi motivi rivestiti di house (il “Tu vuò fà l’americano” versione dance remix) per celebrare dei trenini che “non vanno da nessuna parte” come ghigna Jep Gambardella.
Dal punto di vista artistico però stiamo senz’altro parlando di un film coraggioso che ha sottolineato in modo quasi onirico e sicuramente crudele e spietato, la realtà per quello che è. Paolo Sorrentino ha già dimostrato di essere un regista di livello internazionale, e ha trovato la vittoria con un cast di grandi professionisti, di cui molti provenienti dal teatro. Ha vinto Roma e tutta la sua bellezza, superbamente fotografata da Luca Bigazzi e giganteggiante in tutta la sua antica poesia al cospetto della nullità dei suoi abitanti protagonisti. È soprattutto questa grande bravura tecnica che ha esaltato ancor di più il messaggio che si voleva trasmettere. Una fotografia nitida e inequivocabile che mette tutti con le spalle al muro.
Gli uccelli che migrano e che si fermano per una pausa a casa di Jep, sembrano volerci dare una possibilità, una rinnovata fiducia, ben diversa dai volatili minacciosi di Hitchcock. È da qui che l’Italia deve ripartire. Al di là di quello che pensano di noi gli americani come Paese. Questo premio deve essere un motivo di orgoglio e un’occasione di rilancio per il nostro mercato cinematografico.
Siamo immersi in questa società dell’immagine e del tempo reale che scorre inesorabile, come nel film suggerisce la mostra di quell’artista fotografato ogni giorno fin dalla nascita. Dobbiamo ricordarci da dove veniamo, la nostra storia, la nostra arte. Cercando di riprovare le emozioni immortali del primo amore, al mare, immenso, illuminato dalla luna. Quello che il personaggio di Servillo riesce a vedere ancora sul soffitto. Fonte di ispirazione per iniziare un nuovo romanzo, che tutti insieme dobbiamo scrivere.
Giacomo Aricò