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Appassionato e Intrepido: i settant’anni di Gianni Amelio

Sono settanta le candeline che spegne oggi Gianni Amelio, uno dei registi più autorevoli del nostro cinema. Nato a San Pietro di Magisano e cresciuto lontano dal padre emigrato in Argentina (una mancanza che ritorna spesso nelle sue opere), Amelio si innamorò ben presto della settima arte. Dopo essersi laureato in Filosofia all’Università di Messina, cominciò infatti ad organizzare proiezioni e dibattiti in diversi circoli culturali, ed entrò nella redazione della rivista Giovane Critica in veste di critico cinematografico.

Gianni Amelio

Gianni Amelio

Nel 1965 si trasferì a Roma, diventando l’aiuto regista in diversi film, alcuni dei quali di Gianni Puccini, ma anche con Vittorio De Seta, Anna Gobbi, Andrea Frezza e Liliana Cavani. Lavorò parallelamente anche per la Tv e negli anni Settanta girò diverse pellicole, tutte apprezzate, per la Rai. Ma l’esordio vero e proprio al cinema avvenne nel 1982 con Colpire al Cuore, film che affronta con coraggio il tema del terrorismo nell’ottica di un rapporto contrastato tra padre e figlio. Presentato alla Mostra di Venezia, fu accolto con favore dalla critica e vinse il Nastro d’Argento per il Miglior Soggetto.

La sua bravura e incisività si confermarono anche nei suoi lavori successivi che lo portarono a vincere nel 1990 il David di Donatello per Porte Aperte, film con Gian Maria Volonté che fu anche candidato all’Oscar e che vinse anche un Nastro d’Argento e un Globo d’Oro. Due anni dopo vinse due David (Miglior Film e Regia) per Il Ladro di Bambini, mentre nel 1998 arrivò anche il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia con Così Ridevano.

Gian Maria Volonté in "Porte Aperte"

Gian Maria Volonté in “Porte Aperte”

Prima del suo ultimo lavoro, il documentario Felice Chi è Diverso, con cui dichiarò lo scorso anno la sua omosessualità, nel 2013 girò il bellissimo L’Intrepido, con cui oggi lo vogliamo festeggiare. Vedere oggi quel film, in questa Italia martoriata da un tasso di disoccupazione disastrosamente alto, può essere infatti istruttivo. Il protagonista è Antonio Pane, interpretato da un Antonio Albanese esageratamente bravo e particolarmente emozionante quando esce dal cliché di taglio cabarettistico, è uno di noi nel quale ci potremmo riconoscere.

Lui è uno al quale la vita ha già inflitto sconfitte e dolori (la moglie se n’è andata con un altro), ma che vuole mantenere la sua dignità e la sua umanità. Prima di tutto per il figlio Ivo (Gabriele Rendina) che adora e che vede in difficoltà nel trovare il suo posto nel mondo, ma anche per l’umanità tutta e, per esempio, verso Lucia (Livia Rossi), la ragazza conosciuta per caso e che vede sprofondare in una crisi esistenziale che sarebbe superficiale e sbrigativo collegare solo alla mancanza di un lavoro stabile e soddisfacente.

Antonio Albanese

Antonio Albanese

Una persona fragile e non forte come lui, che finisce tragicamente per soccombere, nonostante il suo disperato tentativo di aiutarla. Il lavoro dà dignità e dimensione di esistenza all’uomo: al protagonista del film piacciono tutti i lavori e lui sorprendentemente sa farli bene tutti perché così vuole per un suo velleitario riscatto anche se limitato a mera sopravvivenza in una misera casa di ringhiera a ridosso dei binari ferroviari.

L’amicizia con un vicino extracomunitario e l’amore per il figlio musicista gli sono sufficienti. Non ha perso la capacità di amare e di emozionarsi per quell’infelice ragazza più disperata di lui e, in qualche modo, si capisce che saprebbe superare anche il dramma della sua morte. Insomma un eroe dei nostri tempi, soprannominato con il nome di un personaggio dei fumetti ingenui di tanti anni fa.

Livia Rossi (foto Claudio Iannone)

Livia Rossi (foto Claudio Iannone)

Alle prese con i macchinari di una lavanderia, evoca il Charlot di Tempi Moderni alla catena di montaggio. Con la stessa leggerezza ed entusiasmo accetta anche i lavori più umili, perché niente può svilire-sminuire la grandezza e la dignità di un vero uomo. Le sue vicende ci mostrano anche come egli fugga inorridito quando ha l’occasione di collaborare con la malavita organizzata nel riciclaggio del denaro sporco. Forse avrebbe guadagnato molti soldi, ma la sua onestà non è in vendita.

Come pure prevale la distanza da chi, pur facendolo lavorare come sistematico rimpiazzo, cerca di coinvolgerlo in qualcosa che si intuisce troppo degradante e vergognosamente immorale. Rinuncia a quei soldi pur di restare pulito e lontano da bassezze e compromessi. Ha il coraggio di andare in Albania (!) a fare il minatore piuttosto che rinunciare alla sua onestà e dignità. Torna in Italia solo per aiutare il figlio in un momento di profonda crisi: il regista ce lo mostra capace addirittura di suonare così d’impulso il sassofono (strumento difficilissimo). È vero o è una metafora sulla forza dell’amore di un padre, o meglio di quel padre che così aiuta il figlio a superare il suo blocco in preda al panico e a mostrare a tutti, poi giustamente acclamato, la sua arte musicale.

Gabriele Rendina

Gabriele Rendina

L’ultimo enigmatico sguardo in macchina (un Cameralook sorridente) non spiega se è stata realtà o sogno, ma non importa: non sempre tutto deve essere spiegato in chiave di realtà. Basta la suggestione, il sogno e la storia narrata di un grande Uomo, appunto l’intrepido. L’altro potente richiamo che il film evoca è la scritta Arbeit Macht Frei (Il Lavoro rende Liberi) che compariva all’ingresso del campo di concentramento di Aushwitz come beffa tragica per i deportati che dovevano credere di essere stati condotti in un campo di lavoro e non di sterminio dove, ancor prima della vita, tutti sarebbero stati privati della propria dignità.

Del resto non è di solo Pane che vive l’uomo: come ci dice la massima evangelica, la nostra vita si umanizza non attraverso la soddisfazione dei bisogni primari, ma attraverso il lavoro attraverso il riconoscimento sociale di appartenenza che dà valore e dignità alla vita. E’ questo che chiedono i giovani dei nostri tempi ed è questo messaggio che il padre trasmette al figlio mostrandogli attraverso la testimonianza della sua vita, apparentemente priva di senso, che la vita può avere un senso e che si può avere fiducia nell’avvenire.

Il Cameralook nel finale del film (foto Claudio Iannone)

Il Cameralook nel finale del film (foto Claudio Iannone)

Questo padre non è stato il padre eroe che spesso compare nostalgicamente nell’immaginario dei figli, è stato a volte genitore-figlio con uno scambio di ruoli molto presente nei nostri tempi senza padri, ma ha saputo lasciare l’unica eredità che conta davvero. Non sono soldi ma un modello di vita in cui la libertà e l’espressione di sé attraverso il saper fare si fondono con un profondo senso di responsabilità personale.

F.C.A.

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