Pierfrancesco Favino 000 Daniele Barraco - Copia

INTERVISTA – Pierfrancesco Favino: “Cinema e identità culturale: il nostro futuro si decide ora”

Pierfrancesco Favino non ha bisogno di grandi presentazioni. Tutti lo conosciamo come attore, ma nelle sue interpretazioni si rivela lo spessore di un uomo che regala ai personaggi il suo cuore e la sua anima. La passione che investe nel suo lavoro si sente ed è travolgente (qui, un anno fa, ho provato a spiegarlo). Soprattutto adesso, quando in Italia i cinema e i teatri – luoghi di cultura, di storia, di crescita, di educazione sentimentale, di condivisione – sono ancora chiusi. Da oltre un mese tutti noi, che amiamo le storie – siano esse proiettate su un grande schermo o interpretate dal vivo su un palcoscenico – siamo al buio, simbolicamente seduti in quei luoghi spenti. Da questo punto è iniziata la mia chiacchierata con lui, con Pierfrancesco Favino.

Pierfrancesco Favino in "Padrenostro" di Claudio Noce

Pierfrancesco Favino in “Padrenostro” di Claudio Noce

Pierfrancesco, momento delicatissimo. Cinema e teatri sono chiusi. Come stai vivendo questa situazione?

È molto complicato rispondere pensando ad una cosa sola, ad un solo ambito della nostra società, ad un solo ambito lavorativo. Tutti noi stiamo vivendo una situazione che sta mettendo a rischio la nostra salute, in una maniera così forte e inconsueta. Aldilà della drammatica emergenza lavorativa nella quale si trovano tante persone, devo dire che mi intristisce molto constatare che teatri e cinema non siano considerati parte della salute dei cittadini italiani. Non solo perché si potrebbe entrare in sala in una maniera garantita, come tra l’altro era già successo. Ma, e mi domando, senza polemica: su che cosa vogliamo che si crei l’identità di una cittadina e di un cittadino italiano?

Cosa ti sei risposto?

Ho pensato che dal momento in cui è così facile chiudere teatri e cinema, allora forse in Italia si pensa che questa identità non si possa costruire anche sul cinema e sul teatro. E lo dico come uomo che si ritiene fortunato ad essere un cittadino italiano. E allora mi viene in mente un’altra domanda: nella scala di valori che costruisce un individuo, per il nostro mondo politico qual è il ruolo che rivestono il cinema e il teatro? E non mi pongo la questione rispetto a questo momento contingente: lo dico rispetto a quello che deve essere un progetto futuro. Se si pensa che si debba tenere aperta una chiesa perché le persone devono sapere che è aperta perché altrimenti vivrebbero con grandissima angoscia il fatto che possano essere chiuse, mi domando perché questo non debba avvenire per un teatro. Se la risposta è perché non è necessario, allora la mia risposta alla domanda di prima l’ho già ottenuta.

In queste ore in Francia Macron ha detto che ha in programma di riaprire i cinema e i teatri dal 15 dicembre…

Non mi stupisce sapere che Macron appena può riaprire cinema e teatri lo fa, perché è evidente che la cultura francese costruisce l’identità del proprio paese attraverso il cinema e il teatro.

.Favino è Buscetta ne "Il Traditore" di Marco Bellocchio

.Favino è Buscetta ne “Il Traditore” di Marco Bellocchio

La scorsa (e storica) cerimonia dei David di Donatello – dove hai vinto come Miglior Attore per Il Traditore di Marco Bellocchio era stata anche l’occasione per denunciare pubblicamente la difficilissima posizione di tutti gli operatori dello spettacolo. Come aggiorni quella riflessione oggi?

L’aggiorno facendo orgogliosamente parte di un’associazione che si chiama U.N.I.T.A., un gruppo di persone che si sta muovendo per gli attori, visto che è soprattutto formata da interpreti femminili e maschili. Stiamo cercando di garantire delle tutele a chi è più in difficoltà. Siamo riusciti ad avere dei contatti con il Ministero dei Beni Culturali che ha ascoltato le nostre proposte, e noi lo ringraziamo per questo. Noi venivamo da un momento estremamente florido per tutti gli operatori del settore. C’era stato un ritorno al lavoro molto forte, nonostante il moltiplicarsi delle piattaforme digitali. Poi si è interrotto tutto. Come per tante altre filiere la situazione del Covid ha creato grandi difficoltà, ma noi non godiamo di nessun ammortizzatore sociale. Nessuna cassa integrazione, un attore in questa situazione si ritrova a casa. Ovviamente non solo attori, mi riferisco a tutte le maestranze. Ci sono tecnici che non lavorano da marzo. Io capisco che questa sia un’emergenza da affrontare, e ringrazio chi se ne sta occupando in prima persona, perché io non lo saprei fare. Quello che però penso sia giusto sottolineare è che quella che stiamo vivendo è in realtà un’opportunità.

Ovvero?

La situazione della pandemia ha semplicemente riportato alla luce problemi preesistenti. Noi questi ammortizzatori sociali non li avevamo neanche prima. Io continuo a pensare, nonostante la situazione sia diversa rispetto a marzo, che abbiamo tra le mani una grandissima occasione. Questo è diventato il momento in cui decidere in quale paese vogliamo vivere tra dieci anni. Sotto tanti aspetti, questo è il momento in cui possiamo progettare il paese dove vogliamo che vivano i nostri figli.

Se tu avessi una bacchetta magica cosa faresti?

Mi piacerebbe investire sulla formazione, sulla scuola, sul rafforzamento dell’identità culturale degli italiani rispetto al patrimonio culturale che abbiamo. Studierei e proporrei modalità diverse di apprendimento, penserei all’importanza della specializzazione, aumenterei l’attenzione alla salute. Ora sta venendo fuori tutto ciò che già prima non funzionava. La situazione che stiamo vivendo lo sta mettendo in evidenza nella maniera più chiara e lampante, purtroppo anche a discapito di vite umane. Ecco perché credo che questa situazione ci debba far riflettere e progettare le cose in modo diverso. Sarebbe un gran peccato perdere questa occasione perché come già visto tra la prima e la seconda ondata ci si dimentica facilmente di quelle che sono le emergenze. Non possiamo vivere in una continua emergenza. Non possiamo pensare solo a risolvere la magagna del momento. Dobbiamo risolvere l’origine di quella magagna.

Un intenso Cameralook di Pierfrancesco Favino

Un intenso Cameralook di Pierfrancesco Favino

Cinema e teatri. Come ti immagini il loro futuro?

Voglio essere proattivo. Prima del Covid non tutto funzionava bene. Al cinema uscivano troppi film e questo non consentiva a quegli stessi film di avere una vita. La produzione era arrivata ad un punto di eccesso che quasi sembrava non seguire la domanda. Forse questa è una delle cose alla quale si può tentare di dare risposta. Io penso veramente che la rivoluzione mentale di un paese nasca dalla scuola e credo che la stragrande maggioranza degli investimenti debba essere fatta sulla formazione. Oggi dobbiamo domandarci se i piani di apprendimento siano a passo con i tempi.

Lo sono?

Non credo. Pensa anche a come stanno le nostre scuole da un punto di vista architettonico: ancora oggi mandiamo i nostri figli in istituti dell’Ottocento che prevedevano una precisa posizione dell’insegnante rispetto ai ragazzi che ancora oggi, in qualche caso, viene mantenuta tale. Oggi invece i ragazzi hanno un altro modo di apprendere, hanno un loro mondo, molto interessante e più evoluto del mio rispetto a quando ero studente. Non si può insegnare a loro nello stesso modo in cui è stato insegnato a me. È necessario che la scuola si faccia delle domande al riguardo. Io penso che sia giusto.

I ragazzi di oggi sono grandi fruitori di immagini e video…

È così, e credo che tutte queste piattaforme che così tanto prolificano facciano anche del bene da un certo punto di vista, perché ampliano il vocabolario di immagini e video dei giovani. Li abituano ad un nuovo linguaggio. I ragazzi imparano la vita attraverso immagini e video e proprio per questo credo sia fuori tempo non insegnare loro la grammatica del video. Altrimenti sarebbero solo vittime passive della fruizione.

Anche a scuola?

Io insegnerei loro cos’è stato l’8 settembre 1945 facendogli vedere Tutti A Casa di Luigi Comencini. Questo non significa abbandonare il libro, ma integrare. Con una forma di apprendimento che è a loro più famigliare. E forse sarà proprio quello a farli tornare sui libri. Per insegnare bisogna avere anche un approccio ludico. È un discorso molto complicato, perché ha anche a che fare con la formazione dei formatori.

"Tutti a Casa" di Luigi Comencini

“Tutti a Casa” di Luigi Comencini

Torniamo al cinema. Il nostro mondo ci aveva abituato alle piattaforme digitali, ai film in streaming e in video-on-demand già prima dell’arrivo della Pandemia. In cosa resta intatto il potere della sala buia secondo te?

Le sale dovranno ancor di più garantire un’esperienza diversa agli spettatori che ci andranno. Vedere un film al cinema non è come guardare un film a casa. Soprattutto per due aspetti…

Dimmi il primo.

Sono una persona che guarda tanto cinema, anche a casa. Seduto sul mio divano, determino il tempo di quella visione, le interruzioni di quella visione, guardo la televisione dall’alto in basso. Una storia, invece, ha bisogno che la persona che assiste e si approccia a quella storia si arrenda. Invece noi ci stiamo abituando sempre di più all’idea che siamo noi a gestire quel racconto, con le nostre armi: con la possibilità di alzarci, di distrarci, di guardare il telefono, di parlare con qualcuno, di non ascoltare i dialoghi. A casa, siamo diventati noi a determinare il tempo di quella narrazione.

Il secondo?

La condivisione. Pensiamo ad una commedia da vedere in sala. Ridere insieme agli altri centuplica il tuo divertimento. Così come in un film d’azione ci ritroviamo tutti con il fiato sospeso per vedere cosa farà l’eroe. Questa cosa non è replicabile, perché non è replicabile la nostra umanità. Però perché questa cosa avvenga il valore di quell’oggetto proiettato sul grande schermo deve partire dal rispetto di quel lavoro. E il rispetto di quel lavoro lo si deve apprendere sin da piccoli. Per questo dico che insegnare ad un bambino a fare un film – non a guardarlo, ma farlo – significa dar valore all’idea che il racconto per immagini sia ancora una cosa di cui l’uomo ha bisogno per capire la vita. In questo senso è offensivo relegare il cinema solo ad uno svago riservato al tempo libero.

Con Valerio Mastandrea e Rocco Papaleo in "Tutti Per 1 - 1 Per Tutti" (photocredit Tullio Deorsola)

Con Valerio Mastandrea e Rocco Papaleo in “Tutti Per 1 – 1 Per Tutti” (photocredit Tullio Deorsola)

Hai accennato al “farsi” di un film. Un mese fa hai ultimato le riprese di Tutti Per 1 – 1 Per Tutti, lo scorso mese. Com’è recitare sul set in questa situazione? 

Le realtà lavorative nelle quali mi sono trovato da quando è iniziata la pandemia sono le più sicure nelle quali mi sia mai capitato di trovarmi. Mi sono sentito più sicuro su un set che non in un supermercato, non ho mai avuto paura che potesse capitarmi qualcosa. Perché l’attenzione, la minuziosa capacità di controllo, il rispetto delle regole che ho visto agiti sul set non li ho visti da nessun’altra parte. Per questo ringrazio la produzione, Indiana e Vision: si sono spesi moltissimo per questo. Tutti quanti sono stati attenti. Raramente ho visto in vita mia così tanta attenzione. E questo ci ha consentito, pur essendo in tanti, circa 140 persone che condividevano spazio e lavoro, di non avere un solo caso di positività. La seconda ondata non era ancora completamente scoppiata. Ma abbiamo finito a metà ottobre.

La commedia di Giovanni Veronesi uscirà con Sky a Natale…

Sono molto felice che sia un regalo di Natale per le famiglie, perché è un film da festa, che porterà emozioni e divertimento, e quest’anno un po’ particolare ne abbiamo bisogno. Sono molto contento anche di essere tornato a vestire i panni di D’Artagnan perché è un personaggio a cui tengo molto.

Il titolo, tra l’altro, in questo momento, diventa simbolico: ognuno di noi diventa importante per tutta la collettività…

Sì assolutamente. E il film, pur essendo una commedia, al suo interno ha degli spunti di riflessione molto aderenti a quello che stiamo vivendo.

Pierfrancesco Favino premiato con la Coppa Volpi alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia

Pierfrancesco Favino premiato con la Coppa Volpi alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia

Parliamo di te. Questo è stato un anno indimenticabile per tanti motivi. A livello personale hai ricevuto tantissimi premi prestigiosi. Il David di Donatello, il Nastro D’Argento, il Globo d’Oro (decretato dai giornalisti della stampa estera), la Coppa Volpi. Te l’aspettavi? Per me, e “la tocco piano”, sei già da annoverare tra i più grandi attori della storia del cinema italiano…

Porca miseria (ride ndr)! Sono felicissimo di questa annata però mi è dispiaciuto non potermela godere appieno con gli altri come avrei voluto. La situazione non offusca assolutamente il piacere e l’orgoglio personale, però lo rende un po’ meno brillante. Tanti di questi premi non me li aspettavo. Ho desiderato il David da protagonista per tanto tempo e sono felicissimo che sia arrivato per un lavoro (Il Traditore di Marco Bellocchio, ndr) che ho molto amato. Ma sono orgoglioso di tutti i premi ricevuti. Non aspettavo assolutamente la Coppa Volpi (per Padrenostro di Claudio Noce, ndr) nonostante sia un film che, anche come co-produttore, ho aiutato a nascere e non pensavo che il mio ruolo mi avrebbe portato a tanto. Sono stato sorpreso e felicissimo di questo. Tutti questi premi sono delle carezze, importanti, profonde, ma non mi sento diverso da prima perché ho avuto questi riconoscimenti. Sicuramente ti collocano più in alto nella considerazione generale, ma non è una zona che io conosco. Tu mi hai appena detto una cosa che io non penso di me.

Qual è la spinta più grande che hai dentro che ti ha fatto arrivare a questi livelli?

La cosa più bella è iniziare a percepire che quello che ho studiato, quello che mi interessa, quello che mi spinge ancora con passione a fare questo mestiere, sta trovando la sua forma organica, rotonda. E questa è una bella cosa perché vuol dire che gli anni passati a domandarsi, a fare, a studiare, a pensare a questo mestiere stanno prendendo una loro fisionomia. Quello che c’è dopo…è quello che c’è dopo. Non credo che la vita di un artista sia un vettore che va in una sola direzione. Prende direzioni diverse, non sempre in una maniera guidata dall’artista. È come se si fossero aggiunte delle sfumature di colore alla paletta con la quale ho iniziato.

Come si aggiungono questi colori?

Grazie anche alla vita che vivi, alle cose che ti accadono. Ma io continuo ad essere estremamente curioso, anche persino folle nelle sfide, questa è una cosa che mi muove da sempre, che mi piace. E la cosa più bella è che queste sfide, molto spesso ardite, possano anche essere godute dal pubblico. Porti agli spettatori una tua nuova complessità, e questo significa che nel tempo, ho vissuto, sono cresciuto. Sono diventato capace di saper esprimere quella complessità. Questa è la cosa più soddisfacente. Inoltre mi piace anche il mio ruolo da produttore e da preside di scuola. Sono altri aspetti che hanno sempre a che fare con questo mondo, che mi incuriosiscono e mi gratificano. Per me è qualcosa di vitale.

A teatro in "Servo Per Due" (foto di Fabio Lovino)

A teatro in “Servo Per Due” (foto di Fabio Lovino)

Hai appena ricordato il tuo ruolo di Preside, facendo riferimento a L’Oltrarno, la scuola di formazione del mestiere dell’attore che dirigi. A tal proposito, mi viene in mente quando ti vidi al Teatro Fraschini di Pavia in Servo Per Due, uno spettacolo bellissimo e per te molto probante. Quanto serve per un attore fare teatro per diventare grande anche al cinema?

Tantissimo, ho sempre pensato che fosse così. Io vengo da una scuola teatrale e credo che un attore debba formarsi su un palcoscenico perché il teatro contiene al suo interno tutto quello che ti puoi poi trovare ad affrontare nel cinema. E non penso che la cosa sia reciproca. Noi oggi quando facciamo delle tournée “lunghe” le facciamo di tre mesi. Un tempo le si facevano anche di un anno intero. Gli attori di una volta andavano in giro con il baule non perché volessero sembrare dei pionieri ma perché stavano in giro per 6-7 mesi a fare solo quella cosa, recitare. Il teatro è una scuola pazzesca, importante, insostituibile.

Addentriamoci nel mestiere dell’attore. Penso soprattutto ad alcuni film biografici che ti hanno visto protagonista. Penso a Gino Bartali, e soprattutto agli ultimi ruoli che ti hanno premiato, Tommaso Buscetta ne Il Traditore e Bettino Craxi in Hammamet. Come attore che operazione compi in questi casi? Come uomo cosa significa diventare un’altra anima? Dove sta il confine tra imitazione e immedesimazione?

Premetto che l’imitazione ha una fama negativa che secondo me non le si addice. Perché un conto è imitare genericamente, sino ad arrivare a creare un’immagine grottesca, un conto è invece l’imitazione come strumento di conoscenza. Le mie non sono imitazioni, ma invenzioni. Come è un’invenzione il modo di parlare di D’Artagnan. Imitare è invece uno dei gesti più naturali dell’uomo e addirittura dell’animale. È il primo strumento dell’abbandono di sé. E lo facciamo tutti. Quando noi iniziamo a parlare non ci rendiamo conto che il nostro modo di parlare deriva dal nostro ambito famigliare, rionale, cittadino, regionale, nazionale. Io nei confronti della lingua italiana ho ancora l’atteggiamento che aveva Pasolini. Non credo che esista l’Italiano. Ogni regione è convinta di parlare italiano e noi ancora oggi abbiamo una realtà linguisticamente rionale, ne abbiamo prova tutti i giorni. Ognuno parla in modo diverso, perché ha una propria identità storica, e un proprio modo di pensare.

Cosa intendi?

Un certo modo di parlare genera un pensiero o è generato da un pensiero. Quel pensiero è frutto di tante cose e nelle pieghe di quel pensiero c’è anche in parte la propria anima. L’imitazione del modo di parlare viene vista molto spesso come se fosse solo un virtuosismo, ma non è così. Pensate a Robert De Niro, se vedete un suo film in lingua originale, non c’è mai una volta che parla uguale a se stesso. Osa sempre un modo di parlare diverso, in base al personaggio. Le radici sono parte integrante della nostra identità. Il mio Tommaso Buscetta agisce così perché è siciliano, non poteva essere di un altro posto, se no non avrebbe agito in quel modo. Il codice linguistico, ancor di più se inserito in un ambiente criminale, determina il suo modo di relazionarsi con il mondo e viceversa. È un rapporto molto diretto. Bettino Craxi invece parla in un certo modo perché sa che così potrà ottenere qualcosa. Le pause di Craxi sono pause studiate perché mettono l’interlocutore in una condizione, quella di doverlo ascoltare con una certa attenzione. Alcune sue vocali aperte e chiuse, rivendicano la sua origine siciliana. Non le ha mai corrette, volutamente. La sua voce, il tono che usava, il suo modo di parlare ci dicono molto del suo comportamento.

Nei panni di Bettino Craxi in "Hammamet"

Nei panni di Bettino Craxi in “Hammamet”

Una voce, un modo di essere…

Il modo in cui si parla nasconde, o svela, tante cose della propria anima. La voce è sicuramente una delle cose alle quali io faccio più attenzione ma non è l’unico elemento che curo. Penso al modo di muovere le mani di questi personaggi, al loro incedere, a come stanno in un luogo piuttosto che in un altro, tutti aspetti che servono per arrivare alla loro essere, alla loro identità. Li studio, li esploro, li vivo. Ognuno di questi personaggi mi ha posto più domande che risposte. E soprattutto mi ha lasciato qualcosa, dandomi la possibilità di visitare delle zone della mia anima, dei miei sentimenti e delle mie emozioni, dei miei pensieri che non avrei avuto modo di visitare altrimenti.

Un altro riconoscimento che hai avuto quest’anno è il Premio Volonté, che hai ricevuto in occasione della 17esima edizione de La Valigia Dell’Attore. Gian Maria è stato un esempio di attore impegnato, autentico, un volto, un pensiero. Oggi nella nostra epoca mancano dei punti di riferimento così?

Il Premio Volonté al quale sono legato anche per affetto nei confronti della figlia mi onora perché mi avvicina ad un nome che per me è inarrivabile. Volonté è stato un uomo totalmente integrato nella sua epoca. Sarebbe sbagliato oggi pensare di cercare in un’epoca così diversa lo stesso tipo di faro. È stato un uomo anche molto discusso dalle stesse persone con le quali ha condiviso diverse lotte. Non è stato certamente un uomo ad una sola dimensione. Ha avuto a lungo un rapporto con un regista (Elio Petri, ndr) che ne ha esaltato le capacità e con cui ha condiviso anche il pensiero politico: un fatto raro. Ma di fondo penso che gli attori non dovrebbero mai parlare…

Cioè?

Dovrebbero parlare attraverso il proprio lavoro. In questo momento ti sto parlando di qualche cosa che il lavoro mi ha fatto capire. Ma è solo attraverso il lavoro che io riesco a dirle quelle cose. Ed è attraverso il lavoro che quelle cose sono discutibili. Si può non essere d’accordo con me, posso piacere o meno. Ciò che scelgo di dire attraverso il lavoro è un po’ come la vedo io nei confronti del mondo. Magari anche interpretando ruoli che sono contrari alla mia etica personale e mi consentono di metterla in dubbio questa mia etica. Tornando a quello che dicevo prima, se i teatri e i cinema si possono chiudere vuol dire che le persone che fanno parte di questo mondo, non sono più viste come persone che possono determinare un cambiamento sociale. La loro opinione non vale poi così tanto, non possono diventare dei fari. La cosa non mi stupisce, anche perché la figura dell’intellettuale è scomparsa. Faccio fatica a trovare dei punti di riferimento in questo momento. Se avessi una bacchetta magica mi piacerebbe far resuscitare Pasolini, anche se adesso, nel nostro tempo, forse non sarebbe ascoltato. Ecco, la grande domanda è questa: che cosa serve oggi quello che facciamo come attori? Ha una sua utilità? Se dobbiamo solo riempire il tempo libero di qualcuno allora forse mi interessa poco. Invece credo che la nostra funzione sia un’altra: quella di credere in ciò che si fa, in modo tale da infondere un senso di possibilità agli altri.

(Ph. charliegraystudio)

(Ph. charliegraystudio)

Pierfrancesco, la paura che abbiamo vissuto nella prima ondata si è tramutata nella rabbia di questa seconda ondata. Abbiamo bisogno di farcela, di credere fortemente in qualcosa di nuovo. Abbiamo bisogno di coraggio. Cosa ci puoi dire? 

Noi abbiamo adesso una grandissima opportunità, quella di progettare il paese che vogliamo. C’è bisogno di un progetto. Noi oggi siamo nelle condizioni di fare questo progetto. Dobbiamo occuparci di quello che non funziona e dobbiamo farlo funzionare nella direzione in cui vogliamo andare. Non credo che sia più possibile andare avanti a tentativi. Voglio un paese di persone che siano consapevoli della nostra ricchezza culturale, voglio un paese all’avanguardia dal punto di vista delle energie sostenibili, voglio un paese dove andare a scuola sia divertente e gioioso. Vorrei che, tra qualche anno, vedendo camminare da lontano un italiano in una città, lo si potesse riconoscere dal suo modo di saper godere della bellezza.

Non dobbiamo smettere di sognare.

Non dobbiamo sognare. Dobbiamo fare: io sono uno che si rimbocca le maniche.

Intervista di Giacomo Aricò

CAMERALOOK

I primi che mi vengono in mente sono quelli di C’eravamo Tanto Amati di Ettore Scola, un film che amo molto, ricco di sguardi in macchina. Mi viene in mente quello di Nino Manfredi, in quel momento in cui dice “Io penso che di questa signorina Luciana mi sono innamorato!”.

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